“Tu hai una passione o un’ossessione?”. Hustle, film a piede libero su Netflix dai primi di giugno, ha impiegato due sole settimane per finire sulla bocca di tutti. Nessun lancio particolarmente invasivo, né eco di fanfare: il nuovo lungometraggio con Adam Sandler ha dovuto farsi strada da solo, dribblando le infinite proposte della piattaforma della grande N, per emergere. E ce l’ha fatta. Del resto, era nato per vincere già nelle intenzioni.
Hustle porta lo spettatore a scoprire una storia di rivincita personale, fatica, sudore, ostinazione. Una storia, ambientata nel mondo dell’NBA, in cui la passione non basta: è l’ossessione a fare la differenza. Se ce l’hai, se l’ossessione ti possiede, allora puoi tutto, perfino sconfiggere i tuoi demoni personali, i più feroci avversari di gioco. La pellicola in buona sostanza funziona grazie alla propria bieca onestà: intessuto sulla personalità e il carisma di Adam Sandler, è una grande metafora motivazionale, dei suoi e dei nostri limiti, delle tante sconfitte e non sempre scontate riscosse che la vita ci porta ad affrontare. Tanto per cominciare, Sandler è stato, per anni, un attore "finito". E non si può prescindere da questo per raccontare Hustle.
Negli anni Novanta come nei primi Duemila Adam Sandler, classe 1966, era praticamente sinonimo di Jim Carrey: tutto il mondo lo amava e venerava in quanto dio della comicità e i suoi film sbancavano puntualmente i box office universali. Semplicemente, perché c’era lui. Onnipotente re della comedy demenziale, Sandler poteva tutto. E ha fatto tutto. Fino a che non è diventato troppo: Jack e Jill (2011) è ancora oggi considerato la pietra tombale della sua carriera, il suo “Machiavelli” di Boris che però, purtroppo, ebbe la sventura di uscire davvero in sala. Da lì, cominciò per lui che aveva recitato al fianco di Jack Nicholson (Terapia d’Urto, 2003) ed era abituato a vedere tutta Hollywood fare la fila per essere in un suo film, una parabola discendente: agli occhi di critica e pubblico, era una triste parodia di se stesso, passato di moda. A confermarlo, arrivò il disastroso Pixels (2016), epitaffio definitivo di una carriera da “C’era una volta”. Ed è proprio qui che Sandler decise che, invece, una buona volta dovesse esserci ancora. Perché il cinema non è solo risultati, applausi e tecnicismi. È anche se non soprattutto passione. Anzi, ossessione.
Così, nacque la collaborazione con Netflix che iniziò tiepidamente (ma con grande classe) nel 2016 grazie al film The Meyerowitz Stories, per la regia di Noah Baumbach. Un ruolo, quello di Sandler, divertito ma molto più sospeso, quasi serioso. I tempi dei personaggi e delle macchiette erano lontani, lontanissimi: doveva e voleva dimostrare di essere un attore, un vero attore. Il film fu presentato al Festival del Cinema Cannes e questa nuova versione di Sandler non passò inosservata. Era solo l’inizio del terzo tempo di Adam.
Inizio funestato da un incauto passo falso: Murder Mistery, risparmiabilissima crime comedy con Jennifer Aniston co-protagonista. Sul web ripresero gli sfottò verso quella "sòla" di Sandler che, con questo titolo, confermava di essere "finito" ma Ehi, che ti aspettavi? Di certo, nessuno si aspettava Diamanti Grezzi, sbarcato sempre su Netflix nel 2019. Fin dalla prima proiezione stampa, si parlò di Oscar per lui e la mancata candidatura resta tuttora dalle parti dell’inspiegabile. Si disse che il pregiudizio verso l'attore fosse ancora troppo forte all'interno dell'Academy. La stessa Academy che ha impiegato due decenni per dare una statuetta a DiCaprio, “reo” di aver fatto Titanic in gioventù e quindi considerato troppo “pop” per una vera consacrazione nell’Olimpo del cinema. Sandler, da parte sua, aveva nel curriculum dozzine e dozzine di commedie demenziali di grande successo e una sequela di flop da novena del rosario. Inoltre, “era finito”, appunto. O almeno così di lui si parlava.
Diamanti Grezzi venne celebrato comunque nel circuito dei film indipendenti e lo Spirit Award per il Miglior attore protagonista andò a lui: “Lasciamo gli Oscar a quei figli di puttana con i capelli cotonati. La loro bellezza sbiadirà col tempo, mentre le nostre personalità indipendenti brilleranno per sempre”. Questo, il suo acceptance speech direttamente dal palco della kermesse.
Ora Sandler è tornato con Hustle, dove, col pretesto del basket, sua grande passione, racconta, metaforicamente, l'incrollabile ossessione che nutre fin da sempre nei confronti del cinema, nella buona e nella cattiva sorte. Pure in quella cattivissima. Nel film è Stanley Sugarmen, scout di pallacanestro che gira il mondo alla ricerca di talenti per l’NBA ma che, a causa di errori compiuti in passato, ha perso ogni credibilità. I colleghi lo lasciano parlare sogghignando sotto i baffi e sono in molti a chiudergli la porta in faccia come se fosse una fastidiosa corrente d’aria. “Stan the man”, però, è convinto di aver trovato, in Spagna, un nuovo campione, Bo Cruz, fino a quel momento muratore. Nella noncuranza generale, gli insegna tutto quello che sa: in primis, l’ostinazione. Fino alla domanda fondamentale: “Tu hai una passione o un’ossessione?”.
Donchisciottesco, Hustle è una specie di Whiplash “buono” dove il coach non si sente (più) Dio ma un povero stronzo dannatamente ostinato. C’è soltanto la sua ossessione a tenerlo in vita. E allora la trasmette, la sbatte in faccia al mondo pur con i pochissimi mezzi a disposizione e senza l’aiuto di nessuno che se la senta di scommettere su di lui. Se avete la stessa “fame” di Stan The Man o avete bisogno di una spinta che ve ne rinfreschi la memoria, non potrete che rimanere mesmerizzati dalla magnificente personalità di questi 120 minuti di film in direzione ostinata e contraria.