Nel giorno in cui a Lampedusa si registrava il tragico record di sbarchi di ben settemila persone in meno di 48 ore, sono andata al cinema a vedere Io Capitano di Matteo Garrone. All'uscita, cellulare in mano per constatare che i quasi cinquemila km che separano Dakar (la città di partenza dei cugini Seydou e Moussa) da Tripoli, passando dalla savana del centro Africa per il deserto del Sahara fino ad arrivare alle coste della Libia, siano stati una vera e propria Odissea, mi imbatto in immagini che avevo appena lasciato in sala.
Leggo che secondo Matteo Salvini gli ultimi sbarchi dei migranti in Italia sono "un atto di guerra", "qualcosa di voluto e organizzato anche per mettere in difficoltà un governo scomodo", un esodo con "una pianificazione e una regia, perché 6 mila arrivi in 24 ore non è un caso", queste le parole rilasciate alla stampa estera. La soluzione per il vicepremier leghista sarebbe "interrompere il traffico a monte, a valle puoi solo soccorrere. I trafficanti vanno fermati con le buone o con le cattive. Piantedosi lavora ad un nuovo decreto sicurezza che spero arrivi a breve".
A breve. Il sistema di accoglienza è al collasso, migliaia di migranti affollano il molo e l'hotspot, arrivando a scavalcare le mura e il sistema di sicurezza per andare incontro a un destino dai contorni indefiniti, ma comunque possibile. Video in cui continua a emergere il loro smarrimento, in un perimetro troppo ridotto per contenerlo tutto, (in)naturale prolungamento del film che si è appena concluso con l'arrivo in Italia, privo del sequel di questa Odissea moderna, che non accenna a finire solo toccando terra.
Seydou Sarr lo restituisce bene con un urlo dal barcone che rivendica la sua posizione, un misto tra disperazione e liberazione, come quando si è costretti a lasciare un pezzo di sé nel realizzare di essere diventati adulti così in fretta. È uno strappo come se ne susseguono tanti in due ore, un tempo infinito per ogni tappa di questo atroce viaggio segnato da violenze e ingiustizie, da un'umanità che latita e si perde. Non c'è modo di rimanere distaccati dalla paura che accende gli occhi di questo giovanissimo Ulisse, che indossa una maglia del Barcellona sporca di polvere, sudore e sangue, macchie che lasciano intravedere a malapena la scritta Unicef. Quando sente di essere davvero solo a questo mondo, gli manca la mamma e quella vita senza apparente futuro dal quale è fuggito.
Non si resta impermeabili di fronte la fragilità dei sedici anni, a quell'essere impreparati nel rispondere della propria vita, figuriamoci di centinaia di persone a cui il mare può sottrarre ogni certezza. Si partecipa legittimamente, scena dopo scena, con una feroce stretta allo stomaco, prigionieri dell'impotenza e dell'incapacità di comprensione delle soluzioni, perché nessuno venga lasciato indietro. Perché nessuno sia chiamato a salvarsi da solo.
Una catena umana alla quale salta qualche anello nella gestione di maglie che diventano sempre più strette. Io Capitano non ha risposte alle domande sui vari perché, si propone una missione possibile: quella di non voltarsi dall'altra parte. Lo fa anche con la dimensione onirica, uno spazio a metà tra favola e sogno, che edulcora una realtà spesso respingente.
Perché una speranza deve esserci in questa vita che all'improvviso nomina capitani ragazzi giovani e poco navigati, che non sanno nemmeno nuotare ma hanno il coraggio di credere che sì, c'est facile. Che basta andare sempre dritto e prendere le onde alte di faccia, mai di lato. Onde spietate, che trattengono persino i neonati, che inghiottono tutto ciò che cade e non ha la forza di risalire.
Va visto Io Capitano, oggi più che mai, proprio per avere la forza di risalire da questa china di indifferenza che l'abitudine a certe immagini ha generato.