Quante frasi memorabili, aneddoti, storie, parole incastrate tra loro in un modo apparentemente sconnesso, ordinate dalla musica che fa il suo dovere. Enzo Jannacci rappresenta una rarità nella storia dello spettacolo italiano e no, non è quello che si direbbe per tutti. Nel suo caso caso non si tratta di una grandezza manifesta, sfacciata, arrogante, universalmente riconosciuta. Jannacci è semmai esempio di quegli artisti che incroci per caso a un angolo della vita e poi non vanno più via.
Follia, estro, sregolatezza, eleganza, un cocktail di elementi riassumibili sotto il termine "genio", se non si trattasse di una parola fin troppo abusata alla quale Jannacci stesso avrebbe reagito con una gran risata.
A raccontare con passione il musicista milanese è il documentario di Giorgio Verdelli, "Enzo Jannacci Vengo anch’io”, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia l'8 settembre e al cinema l'11, 12 e 13 settembre. Avvalendosi delle testimonianza di parenti, amici, seguaci ed eredi artistici di Jannacci, oltre che di preziosissimo materiale d'archivio, l'autore realizza un ritratto che segue la linea dell'ironia, il minimo comune denominatore dell'esistenza di Jannacci, più che la linea del tempo. A dispetto delle tante storie di ultimi e nullatenenti di cui è zeppa la produzione di Jannacci,un sarcasmo dilagante pare aver legiferato nella sua esistenza. Per dirlo con le parole che Roberto Vecchioni pronuncia nel documentario:
"Enzo era l'unico grande genio musicale in Italia. Guccini e De André sono su un cliché scontato, la nobiltà della parola che hanno utilizzato in modo eccelso. Enzo, in senso pirandelliano, è sempre quello che fa ciò che non ti aspetti mai, nel comico e nel tragico. Partiva da qualcosa, ma non sapevi mai dove sarebbe arrivato e alla fine ti rimaneva quella cosa qui, dentro".
Non c'è l'intento di una ricostruzione cronologica della vita di Jannacci, quanto l'intenzione di Verdelli di disegnare il profilo di un artista restio a mettersi in posa, poco illuminato, in movimento, in notturna. La foto che può venirne fuori è potenzialmente bellissima, ma è uno scatto ad altissima complessità, anche per una certa ritrosia alla vanità del soggetto in questione.
Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Enzo Jannacci e la sensazione, guardando questo documentario, è di essere davanti a un gigante che chiunque abbia conosciuto dal vivo non può che riconoscere come tale, ma che in pochi erano riusciti a catturare in un'immagine. Verdelli invece ci riesce, con la competenza l'esperienza di chi, in particolare negli ultimi anni, ha avuto l'ardire di provare a raccontare alcuni dei personaggi più altisonanti e complessi della musica italiana, da Vasco Rossi a Paolo Conte (presenti entrambi come ospiti nel documentario su Jannacci), passando per il ritratto del compianto Ezio Bosso. Uno stile documentaristico, che fa emergere anche una riconoscibilità della mano che ci lavora, quella di Verdelli, valorizzando l'autore e i progetti di cui sceglie di occuparsi.