Don’t look Up è rassicurante, se la catastrofe è solo rappresentata allora non ci riguarda
Se l'hai visto vuoi dire la tua agli altri, se non l'hai visto ti riprometti di farlo, sentendoti emarginata/o nei discorsi da bar. È l'effetto Don't Look Up e questo ci dice già qualcosa sulle nostre abitudini: il caso cinematografico del Natale non ha nulla a che fare con la pratica di andare al cinema. Sembra scontato, ma non lo è. L'opera di Adam McKay, "atterrata" su Netflix il 24 dicembre, sta dividendo in modo netto l'opinione, contemplando poche vie di mezzo tra l'estasi e il dileggio. Il cast astronomico del film (da Leonardo DiCaprio a Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Jonah Hill, Ariana Grande, Cate Blanchett, Timothée Chalamet e chi più ne ha più ne metta) è il bigliettino da visita di Don't Look Up, che è certamente il meno natalizio dei film possibili, ma si sintonizza alla perfezione con il sentire di questo tempo di pandemia in cui, giorno dopo giorno, facciamo i conti con circostanze che fino a 2 anni fa appartenevano a remoti viaggi nell'immaginazione.
Il film inscena la fine del mondo non più come semplice pericolo da scampare, ma come esito finale e ineluttabile. In soldoni, attraverso un percorso narrativo costantemente a cavallo tra il serio e il faceto, Don't Look Up ci racconta del folle processo collettivo che, davanti alla previsione di una cometa diretta verso la terra e destinata a distruggere il pianeta, porta l'umanità a voltarsi dall'altra parte, a dividersi anziché cooperare nell'obiettivo comune della salvezza. La ricetta di questa catastrofe annunciata è la combinazione micidiale tra gli interessi di un grande imprenditore del settore tecnologico (che di fatto determina le sorti del pianeta), la sovrabbondanza di informazioni accessibili in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo, la generale predisposizione all'ignavia della specie umana come guarnizione finale.
Un film costruito su un presupposto che ricorre in molte opere di successo degli ultimi anni: svelarci nella maniera più cruda possibile cosa potrebbe accadere se continuassimo ad essere come già siamo. Il messaggio funziona e conferisce enorme appeal a un prodotto come Don't Look Up, perché è evidente che anche lo spettatore più critico non può non aver visto, nella realtà rappresentata nel film a noi molto vicina, degli evidenti punti di contatto con la propria esistenza, quella del vicino di casa, di un parente, un politico o un personaggio del mondo dello spettacolo.
La cultura Black Mirror
L'eccitazione collettiva scatenata dall'ennesuma opera di genere è figlia della "cultura Black Mirror", in riferimento alla serie, anche questa disponibile su Netflix, che negli anni scorsi ha aperto i nostri orizzonti imponendoci lo sviluppo di una spiccata sensibilità al "what if", accentuando la nostra attitudine alla distopia, al ribaltamento dello status quo. Ci appassiona immaginare dal divano di casa "come andrebbero le cose se", al punto da desiderare altre storie, sempre più precise e, allo stesso tempo, estreme. L'abitudine al parossismo rischia così di diventare un vizio, una pratica rassicurante perché nell'osservare il naufragio dei noi ipotetici dietro l'angolo ci convinciamo che certe cose, in fondo, proprio a noi non possano accadere.
In questo certo senso opere predittive come Don't Look Up rischiano di essere equivoche. Nel gridarci in faccia senza mezze misure che rischiamo di approcciare la pandemia o il tema ambientale con la stessa indifferenza bifolca mostrata nel film verso il pericolo imminente della cometa, congela in una fotografia la degenerazione, rendendola ridicola e inquietante, ma anche facilmente intuibile se vista dall'esterno della bolla. Ma dall'interno della bolla riusciremmo ad essere altrettanto vigili?
La corsa continua alla distopia di film e serie Tv
Lo spirito di denuncia di Don't Look Up è indiscutibile, visto che il film ben si guarda dalla benché minima forma di indulgenza verso l'autodistruttività. Questo rigore è forse l'aspetto più apprezzabile di un film che ha delle lacune narrative e, a giudizio di chi scrive, non riesce sempre a tenere alta l'attenzione. La percezione, semmai, è che la continua corsa alla denuncia del pericolo a un passo da noi possa avere un effetto anestetizzante, anziché essere uno sprono, offrendo allo spettatore uno strumento di autocompiacimento nel non sentirsi parte di ciò che vede, anziché capire di esserci dentro fino al collo. Si chiude con un esempio, a suo modo estremo, per rendere l'idea: in The Handmaid's tale del 2017 (tratto dall'omonimo romanzo del 1985) si allude chiaramente ad un attacco al Congresso americano come l'inizio della fine. Ricordate quello che è successo nel gennaio del 2021?