Dopo la Sirenetta, è il turno di Biancaneve. Attendevamo impazienti l'ennesimo moto di indignazione per i cambi di paradigma dei film Disney ed eccolo servito. Da qualche tempo a questa parte, ormai, quello della casa di Topolino sembra uno schema predefinito: ripescare uno dei grandi titoli del proprio repertorio, un caposaldo indissolubile della legacy Disney, cambiarne i connotati e attendere la reazione d'ira per le "rivoluzioni" dei grandi classici che hanno segnato l'infanzia di molte persone.
L'ultimo caso è quello del nuovo film Disney ispirato al grande classico di Biancaneve e i Sette Nani che, stando alle indiscrezioni rese note dal Daily Mail alcuni giorni fa, presenta tutti i tratti del menù perfetto per irritare il pubblico potenziale più restio a certi stravolgimenti: Biancaneve non sarà propriamente Biancaneve, ad interpretarla un'attrice di origini ispaniche (Rachel Zegler), i nani non saranno nani ma creature magiche, non ci sarà il principe.
Che scandalo, che sdegno, vogliono toglierci anche Biancaneve, sono le grida di dolore che si propagano. Il tutto assume i tratti di una provocazione, un affronto per testare la nostra capacità di resistenza al cambiamento.
Eppure, a uno sguardo razionale, sappiamo bene che l'idea di crociata per una storia di Biancaneve imperitura e immutata è una cosa non ha senso di esistere, se non nell'ottica di una mancata comprensione del meccanismo basilare che regola industria dell'intrattenimento. Disney è una casa che ha creato, e poi cavalcato, l'immaginario. Lo fa da sempre, da che esiste. Risulta evidente che la logica inclusiva alla base di operazioni come quella de La Sirenetta o di Biancaneve sia quella di dare a delle categorie la possibilità di percepirsi come rappresentate in un immaginario storicamente colonizzato da quella triade di aggettivi che a molte persone, oggi, appare così indigesta: bianco, cis ed etero, cui aggiungiamo il patriarcato come bonus. Una strategia di marketing (o di washing per qualcuno) ma no di certo una violenza alle storie, che sono di fantasia e quindi mutevoli e mutabili nel tempo, ma che soprattutto restano e resteranno nelle loro versioni originali. Non le tocca nessuno e la prima Biancaneve verrà difficilmente scalzata da quella che ci apprestiamo a vedere nel 2024.
Non manca chi contesta a Disney una tendenza a rimestare le proprie storie senza l'audacia di inventarne di nuove, ma qui il dibattito si sposterebbe su parametri assai diversi da quelli che hanno a che fare con l'opportunità di rivedere un classico in chiave moderna.
La verità è che la resistenza a certe notizie, l'ostilità aprioristica che spesso emerge, tradisce una indisponibilità al cambiamento che è di questo tempo. In un'era di enorme incertezza come quella che viviamo, accettare una messa in discussione di cose che reputiamo acquisite ci terrorizza. Queste certezze hanno a che fare con la lingua che utilizziamo per chiamare le persone, così come i cartoni animati, cose diverse e stesse dinamiche. Accettare l'idea che possano cambiare, essere modificate, addirittura cancellate, instilla in noi il terrore di perdere quello che abbiamo acquisito e diamo ormai per scontato, di non riuscire più a stare al passo con un tempo che ci sembra correre velocissimo e parlare un idioma che fatichiamo a capire. È da questa constatazione di vulnerabilità, se vogliamo plausibile o quanto meno comprensibile, che dovremmo partire. I remake, i reboot, i nani non più nani e le sirenette mulatte non c'entrano nulla: Biancaneve che cambia ci fa paura come l'idea di perdere le nostre sicurezze.