Perché Marco Mengoni a Sanremo 2024 ha mostrato di avere un’altra stoffa
Poco dopo la mezzanotte di ieri, alla fine di undici minuti di medley, mi è sorta spontaneamente una domanda: ma Marco Mengoni canta ancora L’essenziale alla stessa tonalità del 2013? Sì. O quasi. Rispetto alla versione registrata in studio e presentata al Festival (e all’ESC) ormai 11 anni fa c’è solo una piccola differenza. Ma prima di sentirla insieme devi sapere questo: con l’età, in linea di massima, l’estensione vocale di ogni persona si riduce e “scende”. Per estensione (o range) intendiamo lo spazio ideale tra la nota più alta e quella più bassa che riusciamo a intonare chiaramente: l’invecchiamento può rendere quello spazio più piccolo e più scuro, si perde cioè la capacità di intonare “bene” le note più alte. Dicevo, in linea di massima, perché ogni voce è differente e cambia con l’età – o non cambia, tipo Al Bano – e soprattutto perché i cantanti che si prendono cura di sé e del proprio strumento hanno regimi e attenzioni tali da rallentare di molto questo processo naturale.
Solo chi lavora quotidianamente con le corde vocali di Marco Mengoni conosce la loro situazione e può dirci qualcosa di concreto sul suo range, ma possiamo usare le nostre orecchie per valutare in modo abbastanza oggettivo un altro cambiamento intervenuto con gli anni, senza bisogno di ispezionare il cavo orofaringeo del cantante. Paragonando un’esibizione di 11 anni fa a una di oggi, sulla stessa composizione, la voce di Mengoni risulta adesso più netta, aggraziata e forte nelle medesime note: in pratica, possiamo ipotizzare che sia migliorata la sua “tessitura”, quella parte dell’estensione vocale dove un cantante si rivela più efficace e a proprio agio. La tessitura, insieme con l’estensione, è necessaria per dare una definizione accurata del “registro” di un cantante, la parte della scala dove possiamo collocare la sua voce in termini di estensione e di colore.
Ed ecco un altro termine che ci aiuta a capire le voci in generale, e quella di Marco Mengoni in particolare: “colore”. Rispetto a L’essenziale di 11 anni fa, oggi sentiamo che la qualità delle note cantate è cambiata: cioè, se le note fondamentali sono praticamente identiche, cambia ciò che ci sta intorno; il canto sembra meno squillante e sottile, più rotondo e pieno. Tecnicamente – lo diciamo per chi prende appunti – ciò che si trova intorno ai toni di base viene chiamato armonico naturale: in pratica, ogni suono è la vibrazione dell’aria a una certa frequenza di oscillazione (ed ecco uccisa tutta la magia della musica!), ma in natura questa vibrazione non occorre mai da sola bensì è accompagnata da una serie di altre vibrazioni caratterizzate da intensità (cioè volume) e frequenze variabili, misurabili in frazioni e multipli della base – ad esempio, una frequenza di oscillazione doppia rispetto all’originale produce una nota “più in alto” di un’ottava. Ciò che distingue uno strumento da un altro (e una voce dall’altra) è la combinazione unica e inconfondibile di queste diverse vibrazioni a diverse intensità. In un cantante queste variazioni creano categorie di canto che completano il concetto di registro, e si ottengono adottando tecniche diverse di emissione della voce: dal falsetto alla voce di testa, dal vocal fry al canto di petto. Ed eccoci di nuovo a Marco Mengoni: in questi 11 anni il suo modo di cantare è cambiato sottilmente ma decisivamente, e L’essenziale oggi non si affida ad esempio alle note di testa come un tempo. Ieri sera si è sentito chiaramente un altro approccio, molto più caldo, a quel brano, Ma non è solo una questione di corde vocali, è una questione di gusto e di mentalità.
Prima di tornare all’Ariston – ieri come co-conduttore e superospite, e l’anno scorso come concorrente e vincitore – nel 2022 Marco Mengoni aveva già riportato L’essenziale sul palco che la incoronò. Se riuscissi, per vie traverse, a recuperare un documento video di quell’esibizione, potresti notare che l’arrangiamento orchestrale del brano richiama molto più da vicino il gusto dell’originale e non molto la versione sentita ieri. Chi ha avuto la fortuna di vedere il primo tour negli stadi del cantante, di lì a pochi mesi nell’estate 2022, o la successiva reprise autunnale nei palasport (o il tour successivo) ricorda invece gli stessi suoni, arrangiamenti e approccio vocale.
Per vedere le differenze di arrangiamento, basta concentrarsi sugli accordi dell’accompagnamento pianistico e orchestrale. Alla composizione originale si sono aggiunti nuovi elementi: alcuni siedono perfettamente nell’armonia originale, creando puntelli dentro la tonalità originale e dando un senso di propulsione alla base, come il Mi che puoi sentire subito dopo “e ambire poi alla pace” nella prima strofa; altri, come il Re minore che segue “quello che” nel primo pre-ritornello o alla fine del primo giro del ritornello, vengono presi in prestito dalla tonalità minore parallela per far sprofondare la cadenza, secondo una consuetudine che dal jazz è passata al rock e al pop; e poi ci sono accordi cromatici, cioè del tutto estranei alla tonalità, ma proprio per la loro precarietà ancora più adatti a creare piccole catapulte, come nel centro del ritornello (“e desideri che”).
A questa fitta rete sonora corrisponde viceversa un ritmo che abbraccia gli spazi vuoti, affidandosi completamente allo swing, il dondolio del ritmo tipico di jazz, blues e soul (nota il tempo di “fossero vuote e stupide”). Insomma, soprattutto dalla seconda strofa in avanti, la canzone è più completa che mai di dettagli, come un bellissimo bozzetto trasformato in dipinto. A quest’evoluzione strumentale corrisponde quell’uso della voce più profondo e completo di cui parlavamo. Ma queste nuove possibilità non vengono da un ghiribizzo: sono parte di un’evoluzione artistica ben precisa che non è iniziata certo ieri.
Forse la trilogia discografica Materia ha concesso per la prima volta a Marco Mengoni di abbracciare in pieno la sua propensione R&B, farne non più un ingrediente tra i molti ma la base di ogni ricetta. I tour seguenti hanno rispecchiato questa mentalità: senza rinnegare l’anima pop di buona parte del repertorio, laddove la musica lo consentiva Mengoni e il suo team hanno rimaneggiato quelle canzoni dove il soul metaforicamente lottava per uscire. Il medley di ieri lo ha mostrato in un colpo solo a tre quarti del Paese.
Le armonizzazioni gospel vecchia scuola del coro che hanno introdotto Io ti aspetto; i colpi di tromba e trombone da “homecoming” in Guerriero; i cori a schiaffo spiritual e i violini Philly soul di Ti ho voluto bene veramente; il funk sull’uno di Mi fiderò; l’organo e gli attacchi di coro da gospel anni ‘70 di Proteggiti da me; il break hip-hop di Pazza musica con il finale bayou di ottoni; il coro a cappella new jack swing di Io ti aspetto. Tutto il medley, specialmente nell’arrangiamento vocale (non è un caso), mette in mostra la sintonia di Marco Mengoni con l’intera esperienza musicale afroamericana. Concludere questo percorso di crescita e consapevolezza riarrangiando proprio il successo “nato” sul palco dell’Ariston è tanto simbolico quanto appropriato.
Quindi, dov’è la differenza rispetto all’originale? Nella modulazione, cioè il cambio di tonalità della canzone che, di norma, si utilizza per accrescere la percezione di energia. La versione del 2013 aveva due modulazioni (da La bemolle a La; da La a Si), la versione 2022-23-24 (probabilmente implementata già da prima, ma non ancora in effetto nel tour Atlantico) ne usa una sola, là dove effettivamente una canzone soul l’avrebbe infilata: da La a Si, prima del ritornello finale. E finendo lì, con un acuto proprio sul Si, Marco Mengoni completa un percorso partito da lontano, da ben prima del 2013, da ben prima di X Factor, e che ora sembra arrivato alla sua destinazione più appropriata, dove prima ancora che il palco prestigioso è la musica che ci si suona sopra a decretare la credibilità di un artista. Con una prova come quella di ieri, non mi stupirei se nel giro di pochi giorni qualcuna delle nove date negli stadi programmate per il 2025 andasse sold out.