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Da ormai 75 edizioni il Festival di Sanremo porta con sé il carico di evento più importante dello spettacolo italiano, unendo musica e tv, passato e presente, vecchie e nuove generazioni; il palco dell’Ariston è diventato nel tempo un non luogo in cui tutto può succedere e anche il suo contrario.
Dopo cinque anni di onorata presenza, in periodi difficili come quelli della pandemia, che hanno segnato irrimediabilmente quei giorni, Amadeus ha lasciato il posto a Carlo Conti che ha creato un Festival a sua immagine e somiglianza: pulito, corretto, veloce, a tratti sincopato. Ma d’altra parte, c’era da aspettarselo. Eppure, sembra comunque che non vada bene, che manchi qualcosa. Ma di preciso, ci sarebbe da chiedersi, cos’è che ci manca?
Il contestatissimo trash? Quello che se vediamo su Canale 5 ci fa orrore, ma che se ripulito di lustrini e paillettes sul palco più noto d’Italia sembra assumere un allure da divertissement? Si è parlato dei monologhi mancanti in queste serate, degli interventi che per velocizzare una scaletta già troppo piena, sono stati ridotti all’osso e quindi ci si è lamentati del poco spazio all’attualità, alla politicizzazione di un Festival che di fatto è una vetrina sul mondo.
Un aspetto interessante, peccato che le canzoni, più dei monologhi, sono quello che rimane. E di brani che facciano riflettere, a parte quello di Fedez (che affronta una tematica importante, già cantata negli scorsi anni, ma il suo nome fa certamente più rumore) e Willie Peyote, non ce ne sono. Colpa di Carlo Conti che non ha saputo scegliere testi capaci di rompere lo schermo o, forse, anche i cantati sono diventati un po’ più pavidi? Ricordiamoci che Sanremo, qualche anno fa, è stato vinto da Ermal Meta e Fabrizio Moro con un brano come “Non ci avete fatto niente” che, come dire, non era proprio una canzone d’amore. E la stessa Occidentali’s Karma con cui Gabbani vinse un Sanremo di Conti, era uno sberleffo alla società odierna, nel tipico stile scanzonato del cantautore toscano.
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Insomma, le cose se si vogliono dire, si dicono. E non è detto che deve arrivare qualcuno da fuori a prendersi la responsabilità di parlare quando gli artisti decidono, anche giustamente, di non farlo. La voce, la faccia, l’interpretazione è loro e anche questa non è una legge scritta, quella per cui un artista, perché tale, deve comunicare qualcosa di forte. Si comunica quello che si ha dentro, si ascolta un’esigenza e spesso ci dimentichiamo anche che, molti, non collaborano alla scrittura dei pezzi che portano, se ne fanno solo interpreti. Un dettaglio da non sottovalutare.
Si legge in giro che questo Festival sia piatto, meno impattante degli altri, ma chiediamoci, cosa ci ricordiamo delle edizioni precedenti? Senza dubbio Fiorello vestito da Maria De Filippi, Fiorello che balla con John Travolta, Fiorello che cerca Bugo, ma Bugo non c’è. Ci ricordiamo di Chiara Ferragni e della lettera alla piccola Chiara che, però, è stata presa in giro in più occasioni e col senno di poi, quel “Pensati libera” fa anche un po’ sorridere. Ci ricordiamo del bacio di Fedez e Rosa Chemical, delle parole dette a caso per il Fantasanremo (quest’anno molto sottotono), ci ricordiamo delle flessioni di Rkomi e Amadeus, insomma ci è piaciuta la caciara, non ci è piaciuto lo spettacolo impegnato. Tralasciando l’exploit di Ghali lo scorso anno, unica luce reale, in un mondo di riflettori.
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Si potrebbe pensare che il Festival di Carlo Conti, come piace dire a molti in gergo politico, sia un Festival cerchiobottista, dove non si offende nessuno, non ci si polarizza, un Festival che rimane imbalsamato su se stesso e, per questo, non particolarmente accattivante. Oppure, la verità, è che non siamo più abituati a guardare le cose con normalità. Lo ha detto spesso il direttore artistico in queste conferenze stampa: “La vita, a volte, è più semplice di quel che pensate”. Ingenui a credere che sia così e che, in realtà, sia tutto studiato al dettaglio, tutto un piano ordito per non far arrabbiare i piani alti? Probabile.
Ma un fondo di verità c’è, c’è sempre. Come c’è spesso qualcosa da dire anche quando sembra non sia accaduto niente. I cambiamenti si fanno in silenzio e nel tempo, sono quelli che avvengono dopo il boato dell’evento impensabile, ma sono anche quelli che sotto traccia lasciano i segni più evidenti. È iniziata una nuova era, quella dell’osservazione, quella in cui anche la Rai deve capire dove dirigersi, su chi e cosa puntare. E, al netto delle critiche, che fioccano a prescindere, è forse la strategia più giusta per assecondare i tempi che cambiano e sfruttarli a proprio piacimento. Checché se ne dica, oggi, ci va bene anche il Sanremo della staticità.
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