Indipendentemente dal vincitore – i bravi ucraini con "Stefania" canzone dall'hook che non ti lascia – possiamo ufficialmente dire che l'Eurovision ha confermato di essere uno show importante anche in Italia. Snobbato per anni, da appassionati di musica, addetti ai lavori, cantanti e compagnia cantante, oggi abbiamo avuto conferma – grazie anche ai Maneskin che lo hanno portato a Torino – che l'Eurovision ha anche un appeal televisivo. Sulla questione musicale, invece, il discorso è molto diverso. La nostra percezione è soprattutto italiana, ovvero di un Paese che da qualche anno ha deciso di investire molto e portare il vincitore della principale competizione musicale del paese.
E da qualche anno Sanremo coincide anche con una qualità media molto alta rispetto almeno al decennio precedente, soprattutto in termini di impatto radiofonico. Per questo a volte si fa fatica a capire il resto delle canzoni che vediamo, un melting pot di artisti e generi spesso lontanissimi non tanto dal gusto ma proprio dalla sensazione culturale. Ma ciò che per anni è stato incomprensibile ai nostri occhi era ciò che in qualche modo caratterizzava la manifestazione, anzi ne era il nucleo, il centro, ovvero l'incontro di paesi, di diversità.
Anni e anni a trattarlo solo come trash, mentre oggi al trash, che resta e lo caratterizza, si accompagna anche una nuova aurea. Oggi l'Eurovision ci sembra meno strano, si è normalizzato, le strade hanno cominciato a convergere. Nonostante le regole strettissime imposte dall'EBU, il mood italiano si è sentito e così negli anni scorsi avevamo dei candidati credibili alla vittoria – e sappiamo quanto ci piace vincere competizioni con altri Paesi – un anno abbiamo avuto i vincitori – con annesso successo internazionale -, questa edizione, poi, con la guerra in Ucraina e la vittoria della Kalush Orchestra ha assunto anche un valore particolare di unione maggiore.