Permetteteci una piccola digressione, prima di cominciare a parlare più nello specifico delle nomination agli Oscar 2025. È necessario fare un parallelo andando indietro nel tempo, di qualche giorno. Li abbiamo visti i capi delle Big Tech americane all'insediamento di Donald Trump. C'erano tutti, dal primo all'ultimo. Da Tim Cook di Apple a Mark Zuckerberg di Meta, Da Jeffrey Bezos a Sundar Pichai di Alphabet e Google. Ed Elon Musk di Tesla e SpaceX, ovviamente.
Colossi dalle liquidità inimmaginabili, sempre pronti a farsi capofila di questa o quella iniziativa a favore di questa o quella minoranza diventandone portabandiera (eccetto Musk), che hanno come CEO persone che, magari, fanno anche parte di una qualche minoranza. Tim Cook è stato il primo e unico dirigente di una delle più grandi compagnie del globo a dichiarare apertamente la propria omosessualità, Mark Zuckerberg è cresciuto in una famiglia di ebrei riformati. Eppure erano lì, pronti a prostrarsi di fronte The Donald. Quello che qualche anno fa parlava delle donne dicendo che “vanno afferrate” per le loro parti intime e che, all'interno dei primi ordini esecutivi promulgati nel secondo mandato, ha di fatto messo la parola fine a qualsiasi istanza sull'identità di genere negli Stati Uniti.
Non è il massimo inimicarsi chi vuole ribadire il ben noto refrain dell'America First agevolando, con guerre dei dazi, quel percorso che favorisce in tutto e per tutto i sotterfugi fiscali all'estero delle grandi aziende americane. Finché pagano le tasse a casa loro, all'estero sono liberissime di usare qualsiasi sotterfugio e di pagare meno imposte del nostro macellaio di quartiere.
La risposta di Hollywood all'elezione di Trump
È di sicuro ancora presto per avere il quadro definito di come la macchina dell'intrattenimento statunitense si adatterà a Donald Trump capitolo 2. Di sicuro, le nomination agli Oscar 2025 rese note il 23 gennaio, da un lato, poco sorprendenti, dall'altro antitetiche rispetto a quello che abbiamo visto accadere al secondo insediamento di Mr The Apprentice.
Ben 13 nomination sono andate ad Emilia Pérez, un film diretto da un regista francese e interpretato da tre grandi primedonne. Latine. Zoe Saldana. Selena Gomez. E, soprattutto, la strepitosa Karla Sofía Gascón. La prima attrice dichiaratamente transgender a essere nominata a un premio Oscar, quello per la Miglior attrice protagonista. Prima di lei, ci sono state solo tre persone dichiaratamente transgender in corsa per una statuetta dorata: la compositrice Angela Morley, la musicista Anohni e il documentarista Yance Ford. Elliot Page, nel 2007, era in lizza per Juno, ma avveniva prima del coming out come uomo transgender nel 2020.
Accada quello che accada, Emilia Pérez ha già fatto la storia ed è una chiara risposta che i votanti dell'Academy hanno voluto dare a The Donald. Certo, è una risposta simbolica che nasce anche dal ricambio generazionale che, negli anni, c'è stato nella vasta platea di addetti ai lavori, quasi diecimila, che ogni anno eleggono i film in gara durante la Notte delle Stelle. Un ricambio generazionale all'insegna dell'inevitabile progressismo.
Perché con gli Oscar non dobbiamo mai dimenticare un concetto fondamentale. Non sono tanto un premio al valore artistico di un film. Sono semmai l'attestazione che, a livello industriale o di percezione, un film “ha fatto qualcosa”. Un qualcosa che può declinarsi in modi differenti di anno in anno, ma che nel caso di Emilia Pérez è parecchio evidente. Il film ha chiaramente dei meriti e il fatto che Karla Sofía Gascón sia in corsa come Miglior attrice protagonista e Zoe Saldana come Miglior attrice non protagonista è sacrosanto.
Ma nulla, a Hollywood e dintorni, accade per caso. E le 13 nomination riservate al lungometraggio di Jacques Audiard hanno una finalità ben chiara. È il modo di Hollywood per dire neanche troppo velatamente a Trump qualcosa di simile al discorso fatto alla nazione da Scalfaro nel novembre del 1993: “In questo gioco al massacro, noi non ci stiamo”.
Certo, poi ci sarebbe anche da fare tutto un ragionamento su come Donad Trump abbia vinto anche grazie al numero esorbitante di voti che ha ricevuto proprio dai “latinos”, ma questa è un'altra storia da raccontare in un'altra occasione. Per ora ci limitiamo a notare questa presa di posizione da parte di Hollywood. Con la candidatura di Sebastian Stan a Miglior attore protagonista proprio per The Apprentice che è la ciliegia sulla torta.
Da Wicked e The Substance a Vermiglio e Guadagnino: top e flop degli Oscar
Nomination poco sorprendenti, dicevamo. Le tredici nomination di Emilia Pérez erano “qualcosa che aleggiava nell'aria” come canta Phil Collins. Così le dieci di Wicked parte 1, considerato l'impatto culturale nei paesi di lingua angosassone del musical di Broadway alla base della pellicola, e The Brutalist.
L'unico titolo che risalta un po' fra le pellicole presenti nelle Big Five, le cinque categorie più importanti, è il body horror The Substance di Coralie Fargeat. È in lizza come Miglior film, per la Miglior regia , Miglior attrice protagonista e Miglior sceneggiatura originale. Poi c'è quella tecnica per il trucco e parrucco. Analogo discorso vale in direzione opposta, osservando alcuni esclusi che hanno poco di clamoroso.
Malgrado il clamore veneziano e l'ottima strategia distributiva adottata per la Lucky Red per Vermiglio post Festival, non c'era bisogno di chissà quale dote analitica per capire che l'opera di Maura Delpero non aveva particolari chance. Seguendo anche in maniera saltuaria le testate statunitensi, quelle grazie alle quali è possibile capire che aria tira per gli Oscar, era semplicissimo realizzare che dalle parti di Vermiglio non tirava neanche uno spiffero. Calma piatta.
La Lucky Red può ritenersi soddisfatta perché, dalla sua, ha comunque la distribuzione proprio di Emilia Pérez, del candidato a Miglior film internazionale Il seme del fico sacro e le candidature tecniche di A better man (film sulla vita di Robbie Williams) per i Migliori effetti visivi e di A different man per il Miglior trucco e acconciatura.
Restando in Italia, anche Luca Guadagnino era palesemente fuori dai giochi con entrambi i suoi film, Challengers e Queer, così come la Nicole Kidman di Babygirl, che almeno si è goduta i suoi quindici minuti di viralità su TikTok a suon di bicchieri di latte bevuti.
Ora l'appuntamento è al Dolby Theatre di Los Angeles, il prossimo 2 marzo. Quel giorno scopriremo l'intensità della risposta di Hollywood ai proclami MAGA del Trump 2.0. Poi, archiviato il glamour della serata, potremo capire se anche da quelle parti cambierà qualcosa e se la prossima volta, da Donald Trump, accanto ai CEO delle Big Tech americane, vedremo anche i Big della Città degli Angeli.