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Isabella Rossellini: “Io non sono una intellettuale”

Dalla sua rassegna di cortometraggi, disponibile su MUBI, al suo rapporto con la scrittura; dalla passione per l’etologia all’amore per gli animali, dal suo primo libro alla sua tournée teatrale, e da Instagram alla candidatura ai David di Donatello. L’attrice, regista e scrittrice si racconta a Fanpage.it.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Ci sono poche artiste come Isabella Rossellini. Così precise, appassionate e così – cosa, forse, ancora più importante – oneste. Parlare con lei significa prepararsi a cambiare in continuazione argomento, seguendo il filo dei pensieri e delle intuizioni, ricostruendo vicende solo apparentemente piccole e in realtà enormi, pieni di personaggi da film, di colpi di scena e di riflessioni profonde.

Su MUBI è arrivata la rassegna Isabella Rossellini: Green Porno e altri corti. E come suggerisce il titolo raccoglie i cortometraggi che Rossellini ha scritto, diretto e interpretato. Il tema principale sono gli animali. Ma c’è spazio anche per il sesso, per il ruolo dei genitori e per il significato di famiglia. Ogni cortometraggio non dura più di 2 minuti, e in totale ce ne sono trentotto. Vederli tutti insieme, uno dopo l’altro, è come un sali e scendi continuo tra citazioni, riferimenti e sperimentazione. E sperimentare, dice Rossellini, le piace tantissimo. Perché c’è più libertà. Il punto, però, non è questo. O almeno: non è solo questo.

Il punto è che, chiedendole del suo lavoro, ci si sposta velocemente altrove: alla sua fattoria, per esempio, o al rapporto con la scrittura, al suo primo libro, il biografico Some of me, e alla sua candidatura ai David di Donatello. Ci si sposta nel passato prossimo o tra le teorie comportamentali di un secolo fa. E poi al cinema, che è la sostanza stessa della vita di Rossellini, ai film, agli incontri fatti, agli altri registi e alla voglia di potersi fermare per tornare alla scrivania, a scrivere e a immaginare nuovi film. Io non sono un intellettuale, dice Rossellini. E forse, proprio per questo, è più intellettuale di tanti intellettuali dichiarati e osannati dalla critica e dal giornalismo.

Qual è la cosa più difficile di girare dei cortometraggi così brevi?
Scriverli. Ma questo lo dice chiunque, credo. Probabilmente anche Alice Rohrwacher e David Lynch. Scrivere è la cosa più difficile, soprattutto quando si parla di scienza. Perché da una parte devi essere preciso e dall’altra non puoi essere troppo tecnico. Personalmente, credo che sia stato questo a non avermi fatto capire la biologia quando andavo a scuola.

Hai dovuto trovare un equilibrio tra nozione e linguaggio.
Per esempio, in uno dei video dico che la papera ha una vagina con diversi canali. Ma non si chiama così, non si chiama vagina. Avrà sicuramente un nome latino complicatissimo… (ride, ndr) Insomma, io mi do delle licenze, specialmente quando si tratta dei nomi, per far capire immediatamente alle persone di che cosa sto parlando.

Da dove inizi quando devi scrivere?
Nel caso di Strategie di seduzione, per dirti, cerco prima di mettere a fuoco l’argomento principale: canti, balli, l’uso delle corna tra specie. Poi mi concentro su un animale particolare, proprio per raccontare e rappresentare la varietà delle strategie di seduzione. A quel punto, diventa importante capire bene che cosa fa l’animale che ho scelto.

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Ed è difficile?
Anche io, e non lo nascondo, faccio fatica con alcuni testi. In più, non per tutti gli animali c’è la stessa produzione scientifica. E così sappiamo tutto delle api e dei cani, ma non dei bonobo, che geneticamente sono più vicini a noi degli scimpanzé. E questo perché è complicato studiarli: vivono in Congo, in una parte remota della foresta.

Mi sembra che nei tuoi corti ci sia l’essenza stessa del mestiere dell’attore. E tutto, in qualche modo, ritorna alla dimensione del gioco.
Attenzione però: mica mi identifico negli animali; quando faccio un personaggio in un film è una cosa, qui è chiaramente un altro discorso. Se interpreto un verme o un ragno, non seguo lo stesso processo che seguo quando interpreto una persona. Mi trasformo come un origami. Mi piego su me stessa, mi adeguo. Ma l’immedesimazione è un’altra cosa.

Da che cosa deriva questa differenza?
Una delle grandi difficoltà della scienza che ho studiato e che continuo a studiare, l’etologia, è riuscire a capire se gli animali provano delle emozioni. Le emozioni fanno parte di una sfera estremamente intima, e quando per la prima volta sono state prese seriamente in considerazione dagli scienziati c’è stato un movimento che si è opposto. Perché, diceva, non si possono studiare né le emozioni né il pensiero degli animali. Noi esseri umani abbiamo il vantaggio della comunicazione: se parliamo, di solito riusciamo a capirci.

Mi stavi parlando di questo movimento…
Si chiamava behaviourist, traducibile letteralmente in comportamentale. Ed era nato in America, contrariamente all’etologia che si era sviluppata innanzitutto in Europa tra le due guerre mondiali. Con lo scoppio della seconda, c’è stata una botta d’arresto e il padre di questa scienza, Konrad Lorenz, è stato criticato per le sue simpatie nei confronti dei nazisti. Successivamente ha preso le distanze, ma non gli è bastato per riabilitarsi.

In America, invece?
In America Watson e Skinner, altri due scienziati, erano convinti di poter studiare solamente il comportamento degli animali. E per descriverlo si limitavano all’evidenza, a ciò che potevano effettivamente notare. Parlavano dei movimenti della coda di un cane davanti al suo padrone, per esempio. Non dicevano che era felice. Insomma, l’empatia non viene considerata come una misura scientificamente valida.

Per un attore, invece, l’empatia è fondamentale.
E lo dico anche nel mio monologo teatrale, Il sorriso di Darwin. Un attore sa benissimo che senza empatia non ci sarebbe comunicazione. E quindi se osserviamo gli animali a freddo, limitandoci ai loro comportamenti, potremmo dire che non comunicano. E secondo me sarebbe un errore.

“Nella natura”, hai detto, “c’è tutto”. È un aspetto che tendiamo a sottovalutare – o peggio: a ignorare – come persone?
Se c’è una critica che mi sento di fare all’essere umano, è la sua incredibile vanità. Pensiamo di essere il centro del mondo, di essere un po’ come Dio e di non avere niente a che fare con gli animali. Forse sono i retaggi di una certa cultura e di una certa interpretazione letterale della Bibbia e dei Vangeli. Oggi, però, la Chiesa riconosce la nostra responsabilità come credenti di proteggere la natura. In questi argomenti così politici e religiosi, non sono voluta entrare. L’unica cosa che ho detto è che, per esempio, non si può affermare che l’omosessualità sia contronatura. Perché non è vero. Perché in natura esiste. Io sono d’accordo con il papa che dice: chi sono io per giudicare. Noi non abbiamo ancora capito fino in fondo il mondo in cui viviamo. Quindi perché ci lanciamo in queste sentenze?

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Nel corto L’arca di Noè, però, c’è una critica profonda al bigottismo.
Quel corto mi è stato commissionato da SundanceTv, ed è un caso abbastanza unico nella rassegna. All’epoca, negli Stati Uniti, si stava discutendo del matrimonio tra persone dello stesso sesso. E in quel corto ho voluto parlare di chi interpreta la Bibbia in modo letterale. Qui in America ci sono dei movimenti religiosi fondamentalisti, che non riconoscono altro che le Sacre Scritture. Ed è, se posso, incredibile. Voglio dire: pensiamo proprio all’arca di Noè; se fosse andata veramente così, sarebbe stato un casino.

Più in generale, questi corti sono stati un’occasione per te per sperimentare. Passi da un linguaggio che appartiene tipicamente al cinema muto al teatro alla stop motion.
Se devo dirti la verità, io non ci penso molto a queste cose. Le faccio e basta. Io faccio i miei film nell’unico modo in cui so farli. A questo proposito, ieri su Instagram ho letto una cosa che ha detto Wim Wenders.

Che cosa ha detto?
Wim consiglia agli aspiranti registi di fare unicamente ciò che sanno fare. In questo modo, spiega, è possibile trovare la propria voce. Ecco, io senza saperlo ho seguito il suo consiglio. Quando fai un film, il tuo primo film, alcuni produttori tendono a proteggerti, a metterti in una campana di vetro: ti affiancano un bravo direttore della fotografia, un bravo aiuto, bravi tecnici. E tu, alla fine, fai poco. Ma è importante capire la propria grammatica, la propria grafia; il proprio segno.

E tu li hai trovati?
Io non so muovere la macchina da presa. Quando ho visto Méliès, ho capito che non dovevo muoverla per forza: potevo fare come aveva fatto lui. Guardando il cinema muto, compresi i cartoni animati, scopri tantissime cose belle visivamente. Altrimenti l’alternativa è usare il computer, e io non lo so usare.

No?
A parte l’e-mail, credimi, non so fare proprio niente. Jacopo (Bistacchia, che cura l’ufficio stampa di Isabella, ndr) mi ha mandato il filmato che ha fatto MUBI per promuovere la rassegna. Bene: ci metterò tutto il giorno per capire come fare per ricaricarlo su Instagram. Io voglio parlare degli animali, voglio farlo così; voglio ribadire la mia sorpresa per l’esistenza di tutte queste cose in natura. E lo faccio nella maniera più semplice e diretta possibile. Quella che mi permette di scrivere e condensare ciò che penso coinvolgendo il pubblico.

Al New York Times, hai detto che servono ottimismo e ignoranza per avere una fattoria.
Be’ sì, perché io non sapevo assolutamente niente di fattorie quando ho deciso di averne una. Era il mio sogno quando ero bambina. Vivevo in città, e mi sarebbe piaciuto avere animali e vivere in mezzo a loro. Ricordo che ogni volta che potevo salvavo e portavo a casa cani, gatti e criceti. Quando andavo in campagna, rimanevo senza parole. Ecco, quando mi si è presentata l’occasione, ho deciso di coglierla.

Com’è andata?
Devi sapere che io vivo tra due piccoli villaggi, e in mezzo a questi villaggi c’è un terreno. All’inizio doveva essere edificato, ma il costruttore si è scoraggiato e visto che era il mio vicino di casa mi ha chiamato e mi ha proposto di vendermelo. Tu sei un treehugger, mi ha detto, una che abbraccia gli alberi. Ma io non sapevo da dove partire per aprire una fattoria. E l’ho detto, ed è stato, credo, il mio ultimo momento di lucidità. Perché poi sono stata incantata, e mi sono subito messa al telefono per capire come fare. E alla fine l’ho fatto. E quante cose ho dovuto imparare, e quanta fatica ho dovuto fare. E non solo fisicamente, ma anche con la burocrazia.

Questo binomio, ottimismo e ignoranza, lo utilizzeresti per altre cose?
Senti, io non sono una intellettuale. E si vede bene dai miei libri (stiamo parlando su Zoom e dietro Isabella si vedono le sue librerie, ndr). Non so quante volte ho letto certi volumi sulle api e non sono riuscita ad andare avanti. Perché non li capivo, credimi. Quando poi ho avuto le api, è diventato tutto più chiaro. Insomma, finché non ho davanti quello di cui stiamo parlando, non riesco a comprenderlo fino in fondo. Non sono come la mia amica Yasmine.

Che cosa fa Yasmine?
Non esce mai di casa e sa tutto. Lei è una vera intellettuale. Capisce ogni libro che legge. E poi un’altra cosa che mi succede è che tendo a dimenticare ciò che leggo. L’altro giorno, per dirti, mi ha chiamato un produttore. Mi ha chiesto che cosa pensassi del rapporto tra linguaggio e musica. E io ne avevo già letto da qualche parte, ma non ricordavo dove. Yasmine, al posto mio, avrebbe citato immediatamente libro, pagina e paragrafo.

Hai iniziato a studiare etologia quando hai scritto la tua biografia, Some of me.
Un pochino più tardi, in realtà.

Perché hai deciso di scrivere una biografia così presto?
È stato il mio avvocato, che io chiamo il mio angelo custode, a consigliarmi di farlo. Lui si è sempre occupato degli spettacoli di Broadway, mentre sua moglie è amica di Gloria Steinem, la famosa attivista. Nel loro ufficio c’è una divisione che si occupa delle donne e, in particolare, dei grandi contratti della moda. Devi sapere che noi modelle abbiamo guadagnato benissimo, molto più degli uomini. E i nostri contratti erano assurdi, pieni di vincoli e di limiti.

Per esempio?
Per esempio: non potevo abbronzarmi e dovevo pesarmi regolarmente. Quando Lancôme non mi rinnovò il contratto sia Bob Levine che Lauren Plotkin, i miei due avvocati, mi hanno subito aiutata. Sono stati molto protettivi nei miei confronti. Pensa: un gruppo di femministe mi chiamò per organizzare una protesta pubblica, ma loro mi consigliarono di non farlo. Perché sapevano che sarei stata usata e che, poi, non avrei più potuto lavorare. Il femminismo cambia con il passare degli anni e non è mai la stessa cosa. E anche quella battaglia, alla fine, si sarebbe persa. Allora mi hanno consigliato di scrivere un libro.

E che cosa hai imparato su te stessa, scrivendolo? Hai trovato la tua voce?
In un certo senso sì. Quando me l’hanno proposto, però, ho detto un’altra cosa.

Quale?
Che non so scrivere libri. E così Bob e Lauren mi hanno messo in contatto con una loro amica, che mi ha intervistato e ha lavorato a una bozza. Quando ho letto le prime cinquanta pagine, mi sono arrabbiata.

Perché?
Non aveva capito assolutamente niente! Il suo era il tipico racconto di una figlia di persone famose. Aveva scritto, per esempio, che io andavo a scuola in Rolls Royce. Ma noi non avevamo una Rolls Royce! Perché l’aveva scritto? Io, al massimo, avrò detto che mi accompagnavano in macchina a scuola. Mai accennato, però, a una Rolls Royce.

A quel punto che cosa è successo?
Ne ho parlato con Jeanine Basinger. L’avevo conosciuta alla Wesleyan University, mentre stavo lavorando all’archivio di mia madre, Ingrid Bergman. E lei mi ha consigliato di parlarne con il suo editore.

Chi era?
Robert Gottlieb, che era stato l’editore del New Yorker. Lui mi ha detto che se volevo un libro che mi somigliasse dovevo farlo io. Allora ho preso quelle cinquanta pagine che avevo letto, le ho riscritte e gliel’ho portate. Gli sono piaciute e ha deciso di seguirmi. Mi ha dato dei consigli semplicemente incredibili per scrivere.

Che cosa ti ha detto?
Di ritagliarmi tre o quattro ore, ogni giorno, solo io, la carta e la penna. E di aspettare, e di provare a scrivere. Di non rileggere – quello avrei dovuto farlo il giorno dopo.

E tu che cosa hai fatto?
Esattamente quello che mi ha detto lui, che altro. Mi svegliavo la mattina tra le 4 e le 5, approfittando dei bambini che dormivano. Andavo in garage, e mi sedevo con il mio foglio e la mia penna. E aspettavo finché, poi, non ho cominciato a scrivere. In sei mesi ho finito il mio libro.

Domani sarai ai David di Donatello, dove sei stata candidata come miglior attrice non protagonista per La chimera. Che effetto fa?
E che effetto deve fare? Sono contentissima! L’anno scorso ho ricevuto il Premio alla Carriera alla Festa del Cinema di Roma, e pensavo di aver finito. E ora questo. Si vede che non ho proprio finito, che ho ancora qualcosa da dire.

Con la tournée de Il sorriso di Darwin come sta andando?
Mi mancano le Canarie, Montenegro e poi, tra novembre e dicembre, sarò in Francia.

Ho letto che non hai intenzione di farne un altro.
Sai cosa? Ci hanno chiesto di andare ovunque, da Dubai alla Polonia all’Argentina. E la verità è che io non ce la faccio più a viaggiare e a passare tutte le mie giornate facendo interviste per promuovere lo spettacolo. È una cosa che ti consuma, che ti porta via tutto. Sono contenta di farlo, figurati, però c’è un limite. Dopo quest’anno, avrò altri film in uscita. Quindi altri festival e altre interviste con i giornalisti (ride, ndr). Mi voglio fermare, scrivere e, magari, fare altri film come regista. Sempre sugli animali.

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Hai in mente qualche lungometraggio?
Lungometraggi no, mi piacciono i corti. Mi hanno chiesto di fare una serie tv: tredici episodi da un’ora ciascuno. E che cosa dovrei dire in tutto questo tempo? Non ho abbastanza materiale per così tanto girato, devo farmi aiutare da qualcun altro, da altri scrittori. E a quel punto non sarebbe più una cosa mia, e a me piacciono i film che faccio proprio perché sono miei. E poi c’è un'altra cosa.

Dimmi.
A volte mi metto a guardare Instagram, penso di aver visto sì e no due cose e invece è passata un’ora e mezza. Il format del cortometraggio viene sottovalutato. Secondo  me, se si trova un filo comune, si può fare anche una rassegna, come questa, che può essere vista senza interruzioni. E comunque a me piace sperimentare, te lo dicevo anche prima.

Nella sperimentazione c’è più libertà?
Ce n’è moltissima! Pensa a una grande produzione, pensa ai soldi, i budget, quando devi fare di conto… No, no. Meglio i miei corti.

Qual è l’ultimo film che hai visto?
Gloria! di Margherita Vicario.

E ti è piaciuto?
Tantissimo. La storia viene raccontata con la musica prima ancora che con le immagini. Ed è una cosa a cui non siamo più abituati. Se pensiamo ai musical, pensiamo a film vecchi. E invece questo è nuovissimo. Mi è davvero piaciuto.

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