Carlo Cracco: “Lasciai Masterchef per non ripetermi, la cucina in Tv può esistere anche senza gare”
Ma dal vivo è veramente così? È una domanda accostata a diversi personaggi del mondo dello spettacolo e Carlo Cracco è uno di questi. Inutile chiedersi il perché, Cracco è stato icona della Tv che si è fatta cucina e, soprattutto, issato a paradigma di una severità e una cattiveria che oggi pare aver perso. A distanza di anni dal suo addio a Masterchef è emerso il Cracco affabile, divertente, inaspettatamente ironico di Dinner Club, che giunge alla seconda stagione e porta al tavolo Cortellesi, Zingaretti, Albanese e Giallini, oltre alla confermate Littizzetto e Ferilli. Una metamorfosi, quella dello chef stellato, che obbliga a una nuova domanda: ma quindi chi è il vero Carlo Cracco? Potevamo chiederlo solo a lui.
Siamo alla seconda stagione di Dinner Club. Il sentimento generale è che questo programma si distingua dai tanti format internazionali e rivendichi una sua originalità. Qual è la genesi?
Semplice, mi sarebbe piaciuto fare un viaggio alla scoperta di terre e storie fuori dal comune, che io e i miei compagni di viaggio non conoscessimo.
L'idea dello show è tua?
Beh sì, diciamo che la bozza dell'idea è mia, c'è un'evoluzione molto profonda dovuta alla squadra che ci ha lavorato, però è sicuramente un ritorno a quello che è il mio lavoro. Rispecchia quello che faccio tutti i giorni, partire, andare a scoprire persone del luogo che ti spiegano come fanno certe cose, andare a trovare l'ingrediente poco conosciuto, una preparazione specifica.
Tra gli elementi di grande impatto del programma c'è sicuramente quello dei luoghi che visitate. Li scegli tu?
In generale li propongono, ma per quelli è più difficile dire no che sì, dato che viviamo in un paese meraviglioso, con angoli sconosciuti ai più. Pochi sono andati sulla Sila fino a Longobucco. Io stesso sono passato vicino a certe realtà, senza mai toccarle.
Nel corso degli anni ti abbiamo conosciuto come una maschera imperscrutabile e severa. Come mai attraverso Dinner Club ti troviamo più simpatico?
Perché qui non c'è da giudicare, che è sempre più complicato. Nei primi tempi a Masterchef mi trovavo anche in difficoltà e questo mi portava a chiudermi, diventare un po' più rigido per paura di sbagliare. Ma penso sia un sentimento abbastanza comune, non credo di provare cose diverse dagli altri. Emergeva questa figura un po' severa e dura, ma in realtà era solo timidezza. Per far crescere una persona devi accompagnarla, ma in trasmissione non sempre ci riesci, quindi mandi un messaggio con quel modo duro, sperando che la volta successiva il concorrente la colga e la porti avanti.
Le etichette sono determinanti. Hai subito questo essere stato paradigma di severità, o a un certo punto hai capito ti piacesse e ci hai giocato?
Era sicuramente una situazione di comodo, quando vedevo che c'era materiale dove poter puntare, ci andavo, ma non sempre si indovina. La cosa bella di Masterchef è che ha fatto scoprire una passione enorme per la cucina, cosa che prima nessuno si era sognato di fare. Quello, se vuoi, è il solo merito che abbiamo.
Hai fatto da apripista per l'invasione dei fornelli in Tv in Italia.
Sì, poi sono stato anche il primo ad andarsene. È tutto bello, una volta, due volte, tre volte… poi che due cog****i! (ride,ndr).
Quindi nel 2017 hai lasciato Masterchef per questione di noia?
Più che noia, non si può andare avanti all'infinito, il mio mestiere non è ripetere, ma interpretare. A un certo punto mi sono dedicato al progetto del mio nuovo ristorante in Galleria, che aveva bisogno di una bella presenza. Ora che è partita posso permettermi qualcosa di bello e diverso. Non perché sia meglio o peggio, ma perché fai una rappresentazione della cucina in altro modo e non solo attraverso la gara.
Il fattore gara ha in effetti dopato la cucina in Tv, sembrava una cosa non potesse fare a meno dell'altra. Un meccanismo che Dinner Club disinnesca.
Dinner Club significa condivisione di uno spirito, persone che scoprono mangiando, cosa tipicamente italiana visto che noi parliamo di cibo anche quando mangiamo e continuiamo anche quando abbiamo finito. Siamo malati di cibo, abbiamo questa costanza che non ci abbandona, però è bello da valorizzare e condividere.
Cucina è un po' provocare. Dicci la verità la tua pizza gourmet è stata un po' una provocazione?
Ma no che non lo è. Chi fa il cuoco e lo fa a livelli alti è in grado di gestire tutta la linea della cucina, che va dalla A alla Z. Non è che tu sai fare solo risotto o spaghetto, se sai cucinare hai il controllo di tutto quello che va in tavola. Di chi è in fondo la pizza? La pizza è una delle più grandi bandiere italiane, ma la pizza non è italiana, se vogliamo essere proprio precisi.
Affermazione potente, questa.
Ma è così, la pizza si fa in tutto il bacino del Mediterraneo, in maniera diversa e con nomi diversi, ma c'è. Si chiama pizza a Napoli, che gli ha dato i natali. La pizza però va avanti, non appartiene a qualcuno, è di proprietà di chi se ne prende cura, la fa crescere, la rinnova. Noi abbiamo il dovere di imparare come si fa una pizza, ma poi se voglio la servo. La faccio come dico io, come penso che a me piacerebbe e la faccio bene. Tra l'altro la servo nel mio caffè, non al ristorante, è una cosa diversa perché la pizza è un piatto popolare.
Eri perfettamente consapevole che la cosa avrebbe generato dibattito, non solo geografico ma anche economico. Penso al prezzo.
Ma anche su questo, il prezzo è una cosa relativa. Se si va al nord, in Europa, andiamo a guardare quanto costa un caffè, una brioche, un pasto: almeno tre volte il nostro. Perché? Perché loro sanno che per mantenere un certo standard di qualità e quell'offerta, bisogna farla pagare, perché sennò poi i ragazzi abbandonano. Vero sia difficile da sostenere per chi ne usufruisce, ma si mantiene quella qualità, che va preservata e non diluita. Va diluito il prezzo se si può e noi, per quanto possibile, cerchiamo un compromesso tra sostenibilità e originalità. Se faccio la pizza, la devo fare bene, non è un gioco, non prendo un prodotto semi-lavorato o semi-congelato e lo servo, non è nelle mie corde e non è il mio modo.
L'idea romantica del lavorare in cucina richiama all'immagine di una vita di sacrificio, in cui non esiste spazio per altro. Tu hai parlato spesso di una legge sul lavoro in Italia che complica la vita di chi vuole fare impresa nel tuo campo. Sta cambiando qualcosa?
No. Cosa sta cambiando? Niente, perché questo è un pese molto lento a recepire i cambiamenti e noi, in più, non siamo una categoria, quindi facciamo più fatica a produrre cambiamenti operativi. Ma qualcun altro che l'ha capito c'è.
Chi?
Chi lavora. I ragazzi vengono da te e ti dicono "chef, io preferisco avere 200 euro in meno e avere mezza giornata in più di tempo per me". Questa cosa ti obbliga a rivedere i tuoi parametri e cambiare per rendere tutto più sostenibile.
Cambia la testa di chi lavora, insomma.
Ma è normale, c'è stato il Covid di mezzo, una pandemia che ha prodotto tanti effetti collaterali che noi magari fatichiamo a vedere ma che, in realtà, sono dovuti a quello. Tra queste conseguenze, ci sono i giovani che si chiedono se questo lavoro avrà un futuro.
E tu che risposta dai?
Io dico che non lo so se abbia un futuro. Di certo io cerco di costruirlo e trasmetterlo per fare in modo che ci sia, ma mi rendo conto che basta una cosa che si fermi per cambiare tutto. Un ragazzo che fa una scelta del genere a un certo punto si ritrova a casa e senza lavoro perché è l'unico mestiere che si è fermato davvero.
Sei l'emblema di stella. In una scala da zero alla perfezione credi di aver raggiunto tutto quello che ti eri prefissato?
Gran parte sì, perché sono imprenditore di me stesso, nessuno mi dice quello quello che devo fare, faccio ciò che voglio, sbaglio e a volte ci azzecco, però lo faccio a modo mio ed è la cosa più bella.
Non capita mai di pensare che ti sei rotto le scatole?
Direi di no, anzi. Finché c'è entusiasmo, passione, non esistono domeniche, feste o pandemie che ti fermino.