
Per capire se una pietanza assaggiata per la prima volta sia buona, o banalmente sia di nostro gradimento, si è soliti fare più assaggi: bisogna che i sapori si assestino, che gli odori e i profumi si sedimentino, è necessario un certo tempo per poterne dare un giudizio, non tanto di merito, quanto di gusto. Ed è per questa ragione che, chi scrive, ha pensato fosse giusto concedersi del tempo per capire se Belcanto, la nuova fiction di Rai1, con protagoniste Vittoria Puccini e le giovani Caterina Ferioli e Adriana Savarese sia un prodotto che funziona oppure no. E arrivati alla terza puntata, questo è quanto.
Una favola ha detto qualcuno e, in fin dei conti, il termine di paragone potrebbe anche essere calzante. Ci sono le eroine –Maria e le sue figlie Antonia e Carolina, che provano a risollevare il loro avverso destino, cercando di far emergere le loro doti canore (a quanto pare ereditarie) nel mondo dell’opera, nonostante gli ostacoli prolifichino sul loro cammino; ci sono poi figure meschine che cercano di ostacolarle come la giovane Maddalena (Serena De Ferrari), ma soprattutto ci sono delle anime buone come Domenico (Carmine Recano), Enrico (Giacomo Giorgio) e il maestro Crescenzi (Vincenzo Ferrera) che, invece, prendono a cuore la loro sorte e si battono affinché le ingiustizie possano soccombere sotto la luce raggiante della verità e, ovviamente, del talento. La struttura, quindi, è ben solida, ancorata ad un canovaccio quanto mai classicheggiante che, a dire il vero, proprio per la sua definizione così netta, funziona anche bene piuttosto. L’elemento dell’ambientazione ottocentesca, poi, non guasta e rende il tutto più accattivante.

Il vero problema di una serie che non ha altro scopo se non quello di intrattenere e, magari, di far appassionare il pubblico che la guarda, è che non si può passare su a delle leggerezze che, purtroppo, minano il risultato finale del prodotto. È vero che ci sono gli amori travolgenti, è vero che c’è lo spirito rivoluzionario che aleggia nell’aria, c’è la voglia di riscatto, la passione, la scelta di emanciparsi da una condizione di precarietà, sì, c’è tutto questo bel sentire emozionale, ma quello che non si può proprio ascoltare sono i momenti in cui i protagonisti cantano.
Se la fiction si chiama Belcanto, ed è incentrata sulla musica lirica, è mai possibile che l’uso di voci posticce sia così evidente? Il distacco tra i movimenti degli attori che cantano e le voci che dovrebbero venir fuori dalle loro ugole d'oro è alquanto irritante.

Guardando la serie e monitorando anche i social è l’elemento più disturbante di tutto il racconto. L’unico modo per affrontare quegli attimi è chiudere gli occhi e poi, una volta terminati quei minuti, riaprirli per seguire con gusto il prossimo avvenimento. È un vero peccato, perché gli attori funzionano, sono credibili nei loro ruoli, sono volitivi e alcuni più di altri convincenti, ma la discrepanza tra l’ipotetica voce reale dei protagonisti e quella che viene loro attribuita è troppa per non risultare fastidiosa.
Qualcuno dirà che si è voluto trovare il pelo nell’uovo, che è un modo come un altro per attaccare una serie che funziona, in cui il regista Carmine Elia, circondatosi del suo esercito di attori fidati, è riuscito a costruire un microcosmo favolistico e sognante, come suggerito anche da Vittoria Puccini che ha detto: "L'intenzione del regista, Carmine Elia, non era quella di girare una serie sulle origini della lirica". Ma l’idillio si rompe al primo gorgheggio. È un dato di fatto e, verrebbe da chiedersi, è mai possibile che non si sia trovata una soluzione alternativa che rendesse –restando in tema musicale– il tutto più armonioso? La risposta, a ben guardare, sembra sia no.
