Il peggior timore di un lettore, soprattutto di chi ha amato un libro, è quello di vederlo completamente stravolto in una possibile trasposizione. Figurarsi se il libro in questione è Cent’anni di solitudine.
Finché è stato in vita, Gabriel Garcìa Marquez non ha mai voluto cedere i diritti della sua opera, temeva che l’industria cinematografica americana avrebbe potuto non coglierne l’essenza, temeva che ci sarebbero state censure, che la pluralità dei suoi personaggi sarebbe stata ridotta a qualcosa di sterile. Voleva che restasse unica, anche se in un’altra forma.
Netflix, ma soprattutto i registi Alex Garcìa Lopez e Laura Mora Ortega, sono riusciti nell’impresa di realizzare una serie che non si discosta affatto dal libro, ma è fedele al punto da farci pensare che, forse, non sarebbe potuto esistere altro modo di raccontare la famiglia Buendìa se non così. Sebbene la migliore Macondo possibile sarà sempre quella che abbiamo immaginato leggendo le pagine di Marquez.
Girata completamente in Colombia, con attori colombiani, Cent’anni di solitudine cesella in maniera quasi perfetta, le parole che nella stesura del romanzo, completata in 18 forsennati mesi ( e già questo restituisce l’idea di che opera grandiosa possa mai essere), raccontano una saga familiare irripetibile, raccontano la Colombia, la sua storia più nascosta e quella che, negli Anni Sessanta, aveva dei forti richiami con l’attualità. Il cosiddetto realismo magico di cui Marquez è stato il più florido esponente, è trasposto perfettamente sullo schermo, in immagini che prima erano solo nella fantasia di chi amava perdersi nelle pagine dello scrittore colombiano.
Ad accompagnare lo spettatore, passo dopo passo, quasi come se si temesse di perderlo da un momento all’altro, è una voce fuori campo che segna i confini degli avvenimenti, introducendone di nuovi, attraverso reali spezzoni del romanzo. Come d’altronde si capisce sin dall’inizio, quando scorgiamo la prima immagine di Aureliano Buendìa posizionato davanti al plotone d’esecuzione e sentiamo l’incipit, tra i più famosi di sempre, riecheggiare nelle nostre orecchie. Nulla è lasciato al caso, la cura con cui ogni personaggio è stato scelto è commovente e finalmente si avverte la sensazione di poter empatizzare con ognuno di loro, come se per la prima volta li conoscessimo sul serio, con le loro fattezze, il loro tono di voce, la tempra, la dolcezza, la sofferenza.
Nel romanzo di Marquez c’è tutto. Vedere come i sentimenti umani esplodano così nitidamente sullo schermo, lascia intontiti ma allo stesso tempo assetati, desiderosi di vedere cosa accadrà, quale altra cosa fantastica- nel vero senso del termine- potrà mai verificarsi. La città di Macondo, nata dal nulla, costruita attorno a un fiume con solo quattro capanne, cambia la sua struttura. Più il tempo passa più quelle idee di comunità, solidarietà e semplicità vengono meno, influenzate dalla modernità che avanza, dalla politica che prende forma, dalla Chiesa che si insedia, dalla guerra, gli interessi, tutto ciò che ha macchiato e continua a macchiare gli individui che abitano questo mondo. Vediamo i cambiamenti succedersi velocemente, da un riquadro all’altro, senza quasi rendercene conto. Marquez racconta la storia di un paese quasi ai confini del mondo, ma veder rappresentato il mutamento in modo così netto, più di quanto si sia potuto fare leggendo le sue pagine, ha l’effetto di uno scossone in uno stato di quiete, ci si rende conto di come alle volte l’inverosimile sia così efficace nel farci comprendere la realtà.
Tralasciando alcuni piccoli cambiamenti apportati alla sceneggiatura rispetto all’originale che, invece, si innesta con elementi biografici della vita di Gabo, la serie appare più che centrata. È bello ed emozionante vedere il piglio di Ursula Iguaran, matriarca instancabile di una famiglia su cui aleggiava l’ombra delle maldicenze degli avi, è bello riconoscere la cocciuta spensieratezza di José Arcadio che “non ha mai finito di perdersi” e continua a farlo anche legato ad un castagno. Che dolore vedere Pilar Ternera, ispanica Cassandra, disfarsi nel suo essere donna e madre ai margini di una famiglia che, inconsapevolmente, ha contribuito lei stessa a creare, e ancora, percepire la pena di Aureliano Buendìa, il suo tormento, il suo silenzio e poi la sua ribellione; la rabbia di Amaranta che sfocia in crudeltà, la leggerezza di Rebeca, l’ingenuità di Remedios, la sofferenza di Arcadio. Le sette generazioni dei Buendìa, destinati a rivivere nei loro errori, anche più terribili, sono raccontate (in parte, perché gli altri otto episodi si stanno girando in questi mesi) in tutta la loro potenza e tremenda bellezza, ricordandoci che:
"[…] il passato era menzogna, che la memoria non aveva vie di ritorno, che qualsiasi primavera antica é irrecuperabile, e che l'amore più sfrenato e tenace era in ogni modo una verità effimera".