Il fondo Atlante con 5,7 miliardi non potrà farsi carico di tutte le sofferenze presenti (ed ancora in crescita) nei bilanci delle banche italiane, pari a 80 miliardi di euro al netto degli accantonamenti già effettuati, mediamente pari per solo questa parte di tutta la massa di Npe (non perfoming exposure, esposizione a crediti più o meno “marci”) al 56%. Ma oggi in borsa a Milano i titoli azionari delle maggiori banche quotate hanno corso come se non esistesse un domani, almeno non problematico: Mps (che come spiegato ieri ha il 36% di crediti rappresentato da sofferenze) è salita dell’11,77%, Bper (che ha “solo” il 15,1% di sofferenze rispetto al totale dei crediti) del 10,47%, Unicredit (che con Intesa Sanpaolo si dovrà accollare la maggior parte dell’investimento in Atlante, probabilmente attorno al miliardo di euro a testa) del 10,60%, mentre Ubi Banca ha segnato +8,89% e Intesa Sanpaolo +8,31%.
Tutto a posto dunque? Non proprio. Cerchiamo di ricapitolare: il fondo Atlante, che Fabio Bolognini, correttamente, segnala correre il rischio di essere giudicato dalla Commissione Ue la solita furbata all’italiana per far rientrare dalla finestra quelle eccezioni alla regola del “bail in” imposta dalla Bce a partire dal primo gennaio di quest’anno per ridurre il rischio sistemico dopo non essere riusciti a ottenere una dilazione sui tempi di entrata in vigore della norma stessa, dovrebbe arrivare ad avere tra i 5 e i 6 miliardi di euro.
Tuttavia le sofferenze potenzialmente acquistabili non sono 80 miliardi ma meno, dato che, ad esempio, Intesa Sanpaolo e Unicredit le proprie (a fine 2015 pari rispettivamente a 14,9 e a 19,9 miliardi già al netto della copertura) potrebbero cercare di gestirle in proprio, forti anche dell’esperienza maturata da Pillarstone Italy (la piattaforma dedicata alle storie di ristrutturazione partecipata dalle due banche italiane e dal fondo americano KKR). Inoltre una parte delle sofferenze (quelle che la nuova normativa definisce “forborne”), per la quale sono già intervenute modifiche delle condizioni contrattuali o rifinanziamenti parziali o totali potrebbero essere mantenute dalle banche perché suscettibili di recupero se le condizioni dei debitori migliorassero.
Già, i debitori: dei molti punti deboli del bizantino schema del fondo “di salvataggio” all’italiana (come il fatto che non si capisce perché gli azionisti delle maggiori banche italiane debbano essere contenti di investire in attività ad elevato rischio e/o in titoli azionari di diretti concorrenti, anziché approfittare dello stato di crisi per cercare di rubare loro quote di mercato e profitti) il più pesante è probabilmente che ancora una volta il governo, che è il vero “motore immobile” della vicenda, abbia pensato di tutelare in primis gli interessi delle banche, anzi probabilmente del top management e degli azionisti rilevanti delle banche, piuttosto che quello dei debitori.
Perché è chiaro che ogni tentativo di “forzare” il recupero del credito tutelando chi l’ha concesso rischia in una situazione di ripresa che resta evanescente di danneggiare il debitore, spingendolo verso il fallimento più che verso l’uscita dalla crisi. Non si sarebbe potuto trovare il modo di dare i 5 o 6 miliardi di euro direttamente alle imprese (e famiglie), fornendo loro e non alla banche garanzie o agendo sul piano fiscale, magari rimodulando o rimuovendo anche i vari “bonus” che il governo ha varato con grande tempismo elettorale ma scarso impatto economico in questi due anni? Mistero, poco o nulla buffo. Ciò che non è un mistero è il rischio elevatissimo (eufemismo) di conflitto d’interessi che la soluzione proposta genera.
Per essere chiari: chi deciderà quanto valgono le sofferenze da acquistare da ciascun istituto? L’istituto stesso ove avesse una doppia veste di venditore e acquirente? O un suo concorrente diretto? O ci sarà una sorta di compensazione politica? E chi deciderà quali istituti dovranno essere prioritariamente assistiti? E, ancora, se gli aumenti di capitale previsti in queste prossime settimane (Banco Popolare per 1 miliardo, Banca popolare vicentina per 1,75 miliardi, Veneto Banca per 1 miliardo, ma anche la più piccola Cassa di risparmio di Rimini, per 40 milioni) dovessero restare in buona misura inoptati, quanta parte sarà sottoscritta dal fondo Atlante e quanto rimarrà di capitale per acquistare le sofferenze? In mezzo a tutta questa incertezza c’è un banchiere che sembra avere le idee chiare in testa, ed è il numero uno di Intesa Sanpaolo.
Carlo Messina, oltre ad aver avallato, con grande scorno dei “soci storici” l’offerta pubblica di scambio di Urbano Cairo su ciò che resta dell’un tempo gloriosa Rcs MediaGroup ha infatti dichiarato oggi di non essere “entusiasta” di un eventuale utilizzo della leva finanziaria da parte del fondo Atlante per acquistare sofferenze dalle banche italiane, sottolineando che ove ai venga utilizzata dovrebbe essere comunque “ridotta” (e dunque ben distante da valori di 15-18 volte che servirebbero per comprare la maggior parte delle sofferenze di tutte le banche italiane). Messina ha anche messo i paletti all’impegno di Intesa Sanpaolo: non sarà comunque superiore al 20% di Atlante e sarà diretto, dunque senza mettere in mezzo Sga (Società per la gestione delle attività), ossia la “bad bank” nata all’epoca del salvataggio del Banco di Napoli poi confluita nel gruppo Intesa Sanpaolo. Due precisazioni non di poco conto, ancor prima di sentire quelle che vorrà avanzare la Commissione Ue.