Con certezza, con dolcezza, Aiata vede le nuvole tatuare il cielo di segni, segreti chiarissimi per lei, che rivolge gli occhi verso le intersezioni d’azzurro e non misura il tempo, se non nell'andirivieni del mare, esatto come una carezza lieve sulla guancia di una persona triste. Non ha idea che sia il 6 di novembre del milleottocentonovantaseiesimo anno dopo la nascita di Cristo, né contezza dei suoi diciannove anni; resta ancora un po’ distesa sulla riva, bella come una conchiglia, la pelle profumata di mare e di stelle, gli occhi profondi, le labbra carnose, sorridenti senza ragione.
Quando si alza e raccoglie la sua veste indaco, si avvia con passo lento e deciso alla capanna di sua cugina Vaianu, il cui marito, insieme ad altri pescatori, è scomparso in mare durante la tempesta dei giorni scorsi. Aiata la trova distesa sul letto di paglia, le carezza caramente i lunghi capelli castano-oro. Vaianu si alza e, senza che le due ragazze si dicano niente, escono dalla capanna e si avviano verso il sentiero purificatore della montagna, mano nella mano. Mentre escono, Aiata si accorge di un uomo strano, un Europeo, ma non un missionario. Non porta il talismano con i bastoncini incrociati sul collo, non veste di nero e, proprio come lei e Vaianu, non indossa calzari. Non ha lo sguardo cattivo e preoccupato degli altri uomini venuti da di là del mare che lei ha visto arrivare a Paunaania, il suo villaggio, fin da quando era una bambina. Da lontano, Aiata rivolge all’uomo strano un’occhiata timida, affascinata. Per qualche ragione che non sa capire, lo trova molto bello. È alto, il naso grande e storto come quello di alcuni tiki, gli spiriti del terrore. Lui però non le incute paura. Se ne sta semplicemente seduto, e osserva, il mento poggiato alla mano, mordendosi le labbra.
Aiata e Vaianu camminano rapide verso l’albero di Tamanu sotto il quale, come ogni giorno prima della caduta del sole, siede la vecchia Ponui, silenziosissima come una scultura sacra, il capo coperto da un panno bianco. Aiata si accorge che la vecchia siede nell’identica posizione dell’uomo strano, fermo di fronte a lei a una ventina di metri di distanza. Tra l’uomo strano e Ponui ci sono tre sue amiche, una in piedi, le altre due sedute, che tacciono nella luce del sole; Aiata si accorge che una di loro, Matahi, è molto turbata. Aiata conosce la ragione del turbamento di Matahi: anche il suo uomo è stato preso dalla tempesta pochi giorni prima. Le galline e i pulcini piluccano vicino ai piedi di Matahi che, gli occhi lucidi nel vuoto, si lascia baciare dai raggi del sole del mattino, il seno scoperto proprio come Aiata, la cui veste la cinge fino alla vita.
L’uomo strano guarda fisso davanti a sé: la ragazza in piedi in primo piano gli sembra un elemento stesso della natura; il piano di fondo della capanna di fronte a cui siede l’anziana donna si staglia più in là, creando un effetto di profondità non prospettica, visionaria, espressionista. Il giallo lucente della capanna si armonizza con il verde-azzurro dell’ombra delle ragazze sull’erba, con l’arancio-viola delle loro pelli sensuali, con il rosso carminio del tetto e della terra. Su quella scena, l’uomo strano proietta i colori dei suoi dolori, le sfumature cromatiche con cui il destino l’ha condotto lì, su quelle isole ai confini del mondo, Tahiti. La cosa che più colpisce l’uomo strano, nel contemplare la scena, è lo sguardo della ragazza seminuda seduta al centro: affranta, ma serena nella luce del sole. Come se il dolore fosse parte del vento, e il suo turbamento nient’altro che uno dei sacri palpiti dell’universo.
L’uomo strano a Tahiti c’era arrivato, la prima volta, nel giugno di cinque anni prima, sbarcando a Papeete dopo un viaggio in nave di quasi tre mesi. C’era andato alla ricerca di un rapporto con la natura che rendesse vera una vita altrimenti compromessa in una società di rapporti falsi, di meschinità, di inutile schiavismo borghese. C’era andato perché la sua pittura, piena di simboli e originalità, veniva apprezzata moltissimo da colleghi e amici, ma per nulla dalla critica: c’era andato senza un soldo. C’era andato abbandonando una moglie danese di nome Mette e cinque figli. C’era andato in cerca di una rivoluzione artistica e interiore. C’era andato per fondare un nuovo inizio.
Nei suoi dipinti, voleva annullare ogni rapporto tra volume e spazi, facendo dei particolari null’altro che rappresentazioni psicologico-cromatiche. Perché il mondo non è quello che si vede, bensì quello che si vive. E allora essere artisti significa battersi perché l’esistenza sia riportata a qualcosa di autentico. Sacrificare tutto al colore puro. E alla temeraria possibilità di perdersi, per seguire il proprio destino. Via dal mondo, sempre più lontano. Contro tutti . Lasciando tutto, se necessario.
È di nuovo in quelle isole nel grembo del Pacifico da poche settimane, quando vede quella scena.
Chiude gli occhi, è contento di non essere rimasto in Francia. Sedici mesi di strazio in cui non ha venduto un quadro, è stato derubato dalla ragazza giavanese con cui conviveva, si è rotto una caviglia, ed è stato costretto, per poter ripartire, a vendere un dipinto del suo amico più caro, con cui ha passato ore stupende e terribili, e che ora s’è ucciso. Vincent. Lui invece la morte la cerca nel non poter fermarsi. Avendo deciso di farsi selvaggio fino a diventare se stesso, si costruisce da solo una capanna per sé e la sua "vahiné", e si mette persino contro i rappresentanti locali del governo. Resta solo, è sempre più povero. Ed è malato, ha la sifilide.
Nel 1901, a 53 anni, si spinge fino all’Isola di Hiva Oa. Trova un piccolo appezzamento, rimedia gli ultimi soldi e le ultime forze per alcuni grandi dipinti. Tra cui quella che sarà l’opera pittorica più pagata di tutti i tempi: 300 milioni di dollari. Venduta dal collezionista d’arte svizzero Staechelin a un ignoto acquirente del Qatar nel 2015. Moribondo nella più totale indigenza, la sua famiglia lontanissima in Danimarca, i pochi stimati amici in Francia, l’uomo strano non lo poteva certo immaginare. Il suo corpo verrà ritrovato qualche giorno dopo il decesso, e le autorità cristiane in forza nelle Isole daranno ordine di bruciare parte dei suoi dipinti, perché osceni.
Quando quel giorno di novembre del 1896 il sole cade nel mare, e si fa buio a Paunaania, la vecchia Panui rientra nella capanna e mangia la sua zuppa di pesce prima di dormire. Mahiti e Vaianu, vedove, tornano alle loro capanne vuote dei loro mariti. E Aiata, prima di addormentarsi cullata dal rumore dell’oceano non molto lontano, si sfiora la pelle calda con le mani, ripensando a quell’uomo strano. Che quando morirà verrà tumulato in una tomba sperduta a Hiva Ova, senza che nessuno al mondo sappia della sua morte. Se non qualche abitante dell’Isola che a lui si era affezionato, e che sosterà vicino alla sua lapide, affranto ma sereno nella luce del sole: come se il dolore fosse parte del vento, e il turbamento nient’altro che uno dei palpiti sacri dell’universo. E nessuno di loro sarà in grado di leggerlo: sbiadito, scritto con lettere incerte, su quella pietra funeraria, in un incomprensibile alfabeto, verrà scritto il nome di un ribelle, di un genio maledetto. “Paul Gauguin”.