Il dato meno forte del previsto del mercato del lavoro Usa in agosto (“solo” 151 mila nuove assunzioni non agricole, contro le attese 170-180 mila) rinnova la speranza di un ulteriore rinvio di un nuovo rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve a fine anno e tranquillizza gli investitori che così sono ora liberi di focalizzarsi sul prossimo appuntamento di un calendario, quello di settembre, che proporrà anche riunioni (e forse nuovi annunci) della Banca centrale europea e di quella giapponese.
Da questa sera, infatti, a Hangzhou si apre un G-20 che dovrebbe vedere il governo cinese avanzare una serie di proposte nel tentativo neppure troppo velato di assumere un ruolo di leadership alternativo a quello esercitato ormai da anni dagli Stati Uniti. In particolare Pechino proporrà di puntare a una ripresa economica che passi da un nuovo impulso alla “green economy”, nuove regole del commercio internazionale per favorire gli investimenti, maggiore equità sociale, riforme dei sistemi finanziari internazionali e lotta alla corruzione, nonché sostegno al definitivo sviluppo dell’Africa.
Dalla risposta degli Stati Uniti (e dell’Europa) dipenderà il rilancio o meno di un appuntamento che da tempo ha perso ogni carica realmente propulsiva. Pechino, ormai seconda maggiore economia mondiale, non sembra tuttavia disposta a rimanere in attesa nel caso, probabile, che i leader occidentali non siano in grado di prendere alcuna decisione concreta e potrebbe anche togliersi qualche sassolino dalle scarpe sottolineando gli effetti negativi che le politiche di tassi a zero e sottozero portati avanti ormai da alcuni anni dalle banche centrali occidentali stanno già mostrando e sempre più avranno in futuro soprattutto, ma non solo, in campo previdenziale e di sub ottimale allocazione del capitale, oltre che di promozione di nuove bolle speculative destinate ad esplodere in futuro sia pure remoto se non verranno sgonfiate per tempo.
La differenza fondamentale tra la Cina da un lato e Stati Uniti ed Europa dall’altra è che mentre Pechino ha saputo portare avanti riforme realmente strutturali della sua economia, tale capacità è mancata ai leader occidentali, da tempo succubi dei timori e delle visioni di breve periodo del proprio elettorato, pertanto incapaci di varare quelle riforme strutturali che, come ricordava da Cernobbio ancora oggi il ministro dell’Economia e sviluppo italiano, Pier Carlo Padoan, ospite del workshop Ambrosetti, “danno benefici solo nel lungo termine”. Figuriamoci quindi quando le riforme medesime vengono continuamente fatte slittare e promesse per l’anno successivo (Padoan ha confermato, per ora, il taglio dell’Ires nel 2017), tardando a realizzarsi.
Discorso a parte poi resta l’Africa: nonostante gli sforzi e i proclami degli ultimi decenni, l’economia africana non ha fatto significativi progressi negli ultimi 50 anni, con un tasso di povertà rimasto invariato al 50% della popolazione del continente, popolazione che peraltro è raddoppiata solo dagli anni Novanta ad oggi, raddoppiando di fatto anche il numero di poveri. In Cina, al contrario, la situazione si è capovolta e se ancora negli anni Settanta il 90% della popolazione cinese viveva al di sotto della soglia di povertà, oggi tale percentuale è calata a meno del 10%.
Riuscire ad applicare la ricetta cinese all’Africa potrebbe alleviare anche il problema dei flussi migratori verso l’Europa, anche se probabilmente al prezzo di una crescita dell’influenza, già rilevante, di Pechino sul continente nero e dunque sui suoi giacimenti di materie prime. Eppure rispetto a continuare un vuoto cerimoniale, piuttosto che vedere l’economia mondiale languire e rimanere ancorata a vecchi modelli nella (vana?) difesa degli “interessi acquisiti” di una popolazione occidentale che continua ad invecchiare, forse è il caso di provare a trovare un’intesa e ad aprire la porta a qualche nuova proposta proveniente da Pechino, senza ricadere in preconcetti e schemi mentali del secolo passato.