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Sgomberi, sovraffollamento e tendopoli: cronaca di un’emergenza a Roma

“Il campo sembra in tutto e per tutto quello di una zona di guerra: sterrato, grandi tende e personale in mimetica all’ingresso”. Il racconto dei tre giorni passati dai migranti a Tiburtina dopo lo sgombero: tra il sostegno dei cittadini, l’inefficienza delle istituzioni, la solidarietà ma anche la paura per un futuro incerto e un destino precario.
A cura di Claudia Torrisi
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Quando venerdì scorso arrivo nei pressi del centro Baobab di via Cupa a Roma vengo investita da un gruppo di eritrei che corrono spaventati su via Tiburtina. Molti sono scalzi, alcuni portano delle buste di plastica, per la maggior parte sono ragazzi. Poco più in là scorgo una camionetta della polizia e alcuni agenti che avanzano, mentre i migranti si disperdono per le vie circostanti.

Il centro di via Cupa è la struttura dove si sono rifugiati i circa 500 migranti che per giorni sono rimasti accampati nel piazzale antistante la stazione Tiburtina, dormendo sull'asfalto assistiti solo da passanti e Croce rossa, in attesa di prendere un autobus o un treno per il nord Europa. Molti senza documenti, bloccati per la sospensione di Schengen e la chiusura delle frontiere a causa del G7. Giovedì scorso è intervenuta la polizia per sgomberare l'assembramento, caricando e creando il panico tra i migranti. Nella fuga sono stati fermati e portati all'ufficio immigrazione per essere identificati 18 eritrei. Il resto è riuscito a scappare, rifugiandosi, per la maggior parte, al Baobab.

Il centro – che da un po' di anni risulta autogestito da una comunità di migranti per la maggior parte etiopi ed eritrei – però ha una capienza di circa 200 posti. Tra gli arrivi giornalieri, i migranti fuggiti dalla retata a Tiburtina e parte degli sfollati dello sgombero di un mese fa all'accampamento di Ponte Mammolo, nella notte tra giovedì e venerdì scorso si sono ritrovate in via Cupa più di 800 persone. Per questo motivo, nelle strade circostanti, è pieno di cartoni e letti improvvisati. Dentro non c'è posto per tutti.

Venerdì mattina davanti al Baobab la strada è praticamente deserta, fatta eccezione per uno stuolo di giornalisti. I migranti che stazionavano nei pressi sono tutti scappati pochi minuti prima, quando è arrivata la polizia. Qualcuno è riuscito ad entrare dentro il centro. Secondo una volontaria che era presente, è stato semplicemente l'arrivo delle forze dell'ordine a scatenare il panico generale. “È un effetto di ciò che è successo giovedì alla stazione Tiburtina. L'operazione è stata condotta senza mediatori, senza che nessuno gli spiegasse cosa stesse succedendo. La polizia ha sgomberato in maniera violenta, loro sono fuggiti, alcuni sono stati presi. Quindi ora camionetta della polizia vuol dire pericolo”, mi dice.

Il grosso cancello di ferro del Baobab è chiuso, fatta eccezione per una finestrella che ogni tanto viene aperta dai migranti per controllare quello che succede fuori. La situazione è parecchio tesa: giornalisti e fotografi fuori, polizia all'imbocco della via, profughi asserragliati dentro o nascosti nelle traverse.

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Dopo che la camionetta delle forze dell'ordine lascia via Cupa, i migranti iniziano lentamente a tornare. Qualcuno di loro si mette in fila al presidio della Croce Rossa di via Tiburtina per farsi visitare, altri si siedono per terra. “Noi siamo qui da un mese, dallo sgombero di Ponte Mammolo. E siamo da soli”, mi spiega un operatore. “Facciamo visite, portiamo biancheria e un pasto al giorno. Oggi per la prima volta ho visto la polizia e la protezione civile, che è venuta a darci alcune cassette d'acqua. Ma è la prima volta in un mese, eh. Stanotte sono stati 800, ma i giorni prima erano 600-700. Qui intorno non ci sono neanche i bagni chimici”. Chiedo se esista davvero “l'allarme scabbia”, circolato negli ultimi giorni a Roma e anche a Milano, dove centinaia di profughi sono accampati alla Stazione Centrale. “La scabbia c'è ma si cura. È una malattia della pelle come un'altra, basta curarsi. Non è il colera, ecco. Questa gente non si lava da giorni. Se c'è un allarme direi che è denutrizione, ferite di arma da fuoco non curate, violenze subite in navigazione. Alcune persone hanno bruciature di sigaretta in tutto il corpo”, mi risponde l'operatore.

Davanti al centro mi avvicino a un gruppo di ragazzi. Inizialmente non vogliono parlare. “Se parlo con te poi viene la polizia”, mi dice uno di loro. Ha 26 anni, non vuole dire il suo nome “perché è la cosa più riconoscibile” ed è arrivato a Roma da tre giorni. Domenica 7 giugno è sbarcato a Palermo, dopo un viaggio iniziato in Eritrea. “Ma non voglio restare qui, non mi importa di stare in Italia. Io voglio andare in Inghilterra”, dice. La notte tra giovedì e venerdì ha dormito per terra nei pressi del Baobab, dove non c'era posto. Gli chiedo se si aspettava un'accoglienza del genere e mi risponde di sì: “Ce l'avevano detto, io non ho nessuna sorpresa. Ho solo paura della polizia”.

Poco più in là incontro Alema, un operatore volontario del centro Baobab, sbarcato a Lampedusa nel 2002. “Loro lo sanno quando partono che in Italia non c'è futuro. Ma cosa possono fare? Per arrivare in nord Europa devono passare da qui. Il problema sono la burocrazia e le istituzioni, e ora anche la sospensione di Schengen. Le persone rimarrebbero tre giorni e se ne andrebbero, se potessero”, dice. La maggior parte, infatti, sono transitanti, un termine che la politica sembra aver scoperto solo negli ultimi quattro giorni. È gente che non vuole restare, vuole proseguire il viaggio senza farsi identificare per non incappare nelle maglie del regolamento di Dublino, che li obbliga a chiedere asilo nel primo paese dove vengono registrati.

Mentre parlo con Alema arriva di nuovo una camionetta della polizia e i migranti iniziano a scappare per le vie limitrofe. Il comandante chiede di parlare con un responsabile e si rivolge a Daniel Zagghay, coordinatore di Baobab. Il messaggio è chiaro: metteteli dentro la struttura, metteteli dove volete ma toglieteli dalla strada, altrimenti li portiamo via e li identifichiamo.

Il punto è che il centro è al collasso. “Ieri sera qui c'erano circa 800 persone, molte rimaste chiuse dentro con paura di uscire. Il centro può sopportarne al massimo 210-250, compreso il cortile. Dentro ora ci sono donne, soggetti disagiati e circa 111 bambini. Mediamente la gente qui sta tre giorni, tranne se in estrema difficoltà, altrimenti massimo una settimana. Stamattina ne sono arrivati circa 120-130, un numero in difetto, che si sono aggiunti a quelli”, spiega Daniel. Secondo lui, il motivo dell'affluenza eccezionale degli ultimi giorni non è solo la chiusura delle frontiere: “Molti sono arrivati già un mese fa con lo sgombero di Ponte Mammolo. Poi c'è una questione di flussi migratori sottovalutati”.

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Durante il pomeriggio, intanto, si diffonde la notizia di un tavolo in prefettura per trovare una soluzione e “alleggerire la situazione del Baobab”.

Dentro il centro c'è letteralmente un tappeto di persone. I migranti sono stesi ovunque nel cortile, su cartoni, teli o direttamente sull'asfalto. Intorno circolano tantissimi bambini. Su un divano accanto alla ringhiera è sdraiata una donna, circondata da altre persone. Accanto a lei una ragazza che parla italiano mi spiega che sta provando a contattare un medico. “Sono una mediatrice volontaria, sto telefonando a ripetizione da un'ora. Questa donna ha mangiato troppo poco e si è sentita male. Qui la situazione è quella che vedi. Se non fosse per la parrocchia e la Croce rossa che portano da mangiare una volta al giorno al parcheggio non sono come faremmo. Ma ora sono troppi, non basta”.

Nel frattempo arrivano volontari e privati a portare aiuti. “Non sapevo che prendere, quindi ho fatto una busta con un po' di tutto”, dice una signora. Quella dei volontari e dei cittadini impegnati a dare una mano sarà una costante di questi giorni, bilanciata da una sostanziale assenza – o clamoroso ritardo – istituzionale.

Se il cortile del centro è sovraffollato e maleodorante, dentro è anche peggio. Ogni singolo angolo, dalla reception ai corridoi, alla saletta, è occupato da gente seduta o sdraiata per terra. Le condizioni igieniche sono al limite e dai bagni viene un fortissimo odore di piscio. Quello che era un ristorante è diventato una dispensa per gli aiuti, anche se anche lì c'è gente accampata.

Arriva la sera e la distribuzione dei pasti. Dal comune tutto tace, e i migranti passano un'altra notte ammassati in strada.

Durante la giornata di sabato arriva la notizia dell'allestimento di una tendopoli provvisoria nei pressi della stazione Tiburtina, gestita da comune e Croce rossa. Il passo successivo sarà una palazzina di proprietà delle Ferrovie dello Stato, che però non sarà pronta prima di un mese.

Domenica mattina mi reco all'accampamento, che si trova in uno spazio che dà su una strada piuttosto desolata alle spalle della stazione dal lato di Pietralata. Mi accompagnano tre ragazzi eritrei che ho incontrato in un bar vicino. Loro non vivono lì, hanno dormito in strada, ma si è sparsa la voce del nuovo alloggio.

Il campo sembra in tutto e per tutto quello di una zona di guerra: sterrato, grandi tende e personale in mimetica all'ingresso. Sul posto trovo l'assessore alle Politiche sociali di Roma Francesca Danese, che spiega che il luogo è stato scelto così riparato appositamente per non mettere ulteriormente in esposizione i migranti. Quando arrivo l'allestimento è ancora in corso, nonostante nella notte tra sabato e domenica abbiano dormito nelle tende circa 120 persone.

Flavio Ronzi, presidente della Croce rossa di Roma, spiega che il passaggio da Baobab alla tendopoli sabato sera non è stato semplice, “perché è stato molto difficile convincere i migranti a spostarsi da via Cupa. Molti non volevano salire sui mezzi, traumatizzati da quello che è successo a Tiburtina qualche giorno fa. Siamo dovuti andare a piedi a piccoli gruppi”. I profughi non si fidano, e restano al centro.

Arriva in visita anche il sindaco Ignazio Marino, che fino a quel momento ha taciuto sulla questione. Ad ogni modo, la soluzione della tendopoli dovrebbe essere temporanea, anche perché, con l'aumento delle temperature, a breve sembrerà di stare nel deserto.

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Man mano che passano i giorni la situazione al centro Baobab migliora, anche se a martedì si contano ancora 300 persone, cioè oltre 100 in più del consentito. Ciò vuol dire che non ci sono letti per tutti e per strada ci sono ancora cartoni.

L'assessore Danese ha più volte sottolineato come il comune abbia “in meno di 24 ore montato una tendopoli con presidio sanitario e mensa. L'obiettivo è svuotare il più possibile il Baobab che ha numeri insostenibili”.

In una lettera indirizzata al sindaco, i rifugiati eritrei sgomberati da Ponte Mammolo hanno scritto che dopo l'operazione dello scorso maggio le istituzioni “hanno negato qualsiasi forma di aiuto, compreso quello per il soddisfacimento dei bisogni primari; hanno rifiutato persino di fornirci i bagni chimici. Il sostegno è arrivato solo dal quartiere, da privati cittadini, da associazioni e centri sociali”. Esattamente lo stesso si è verificato in questi giorni, con un'accoglienza e una gestione quasi interamente a carico di volontari, associazioni o privati. Tutti, da Marino al vicesindaco Nieri, all'assessore Danese si sono complimentati per la “generosità di Roma”, invocando una soluzione nazionale, perché la città “sta affrontando una situazione internazionale”. Questo è sicuramente vero, ma probabilmente ciò che è successo non può essere fatto risalire solo alla temporanea chiusura delle frontiere. Roma sembra essersi accorta solo dopo lo sgombero di Tiburtina della situazione e il Comune si è mosso solo quando era impossibile non farlo: all'esplosione di una bomba umanitaria che ticchettava da tempo.

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