Dopo la morte di Gianroberto Casaleggio sono stati in molti a chiedersi “cosa ne sarà” del Movimento 5 Stelle. C’è chi immagina un ritorno al timone di Beppe Grillo, chi dà per scontata l’investitura di Luigi Di Maio, chi punta sul figlio di Casaleggio, Davide, e chi considera praticamente archiviato il progetto “a lungo termine” del Movimento 5 Stelle.
Mauro Calise su L’Unità, per esempio, sottolinea come “la domanda da porsi è cosa succede all’élite quando il controllo ferreo viene meno, come si comporterà il direttorio, e se Grillo farà un ulteriore passo indietro. La dinamica organizzativa è molto difficile da controllare e la posta in gioco è molto alta”. Lucia Annunziata, su HuffingtonPost, ragiona sul bivio per il M5S: “Un eventuale collasso potrebbe ridefinire differentemente la dinamica destra/sinistra/ centro, così come il suo diventare più partito potrebbe costruire la strada verso il governo”.
Le analisi di queste ore, alcune anche molto valide, non tengono però conto di una questione che, a nostro modo di vedere, è essenziale, decisiva: il cambiamento del M5S è già in atto, il processo verso la trasformazione del MoVimento in un partito più o meno tradizionale è già al punto di non ritorno, l’assunzione di responsabilità da parte della nuova classe dirigente è già avvenuta, lo spazio di manovra delle nuove leve è più ampio della primavera del 2013. Per volontà di Grillo e Casaleggio, certo, ma non solo.
Qualche tempo fa, il concetto con il quale ci sembrava di descrivere al meglio il processo decisionale in casa 5 Stelle era quello di “centralismo non democratico”: da una parte il verbo del capo carismatico, che sostanzialmente sopperiva alla riflessione ideologica e alla discussione più strettamente politica, dall’altra il peso della struttura che impostava le gerarchie, tamponava le polemiche, chiudeva le questioni. I post di Grillo e i PS di Casaleggio, per semplificare.
Nella logica, o meglio nello spirito del Movimento, si trattava di pratiche del tutto lecite e forse essenziali: la difesa del gruppo da attacchi esterni / interni, in nome della preservazione del "fine ultimo”, la ricerca dell’obiettivo di più ampio respiro senza scendere a compromessi, la conferma dell’inessenzialità del singolo. Era il risultato finale della prima vera trasformazione del M5S, conseguente al boom delle politiche del 2013 (che aveva catapultato decine di militanti senza esperienza e competenza al centro della scena politica italiana): il cambiamento da luogo “aperto, permeabile, inclusivo” a fazione in lotta, escludente e “militarizzata”; da formazione in continua evoluzione a spazio privato dei militanti, egemonizzato dai duri e puri, poi dai purissimi e infine dai senza peccato. Una evoluzione criticabile, forse, ma che ha ottenuto un risultato per nulla scontato: il rafforzamento della struttura, il consolidamento del consenso e la crescita del gruppo dirigente. Certo, a scapito della riflessione politica e dell’incidenza in Parlamento (il settarismo genera mostri, anche nel 2016), e con limiti evidenti nel modello comunicativo, ma questo è evidentemente un altro discorso (che abbiamo provato ad affrontare qui e qui).
Le Europee erano state il primo, dolorosissimo, campanello d’allarme. Le Regionali avevano fatto il resto. E il cuore del M5S, attivisti e militanti storici, era tornato a pulsare, a reclamare spazio. Grillo era stato il primo a rendersi conto del fermento, dell’energia che rischiava di far implodere la sua creatura: il passo di lato non era disimpegno, era un riconoscimento, un attestato di stima verso una classe dirigente formatasi sulle carte e nelle lunghe sedute parlamentari. Casaleggio non aveva avuto bisogno di defilarsi, o meglio, non ne avuto la possibilità. La strategia mono-direzionale della comunicazione ufficiale del M5S (che alimenta l'universo grillino e quella che Giovanni Boccia Artieri definisce come “realtà spreadable e contraddittoria fatta anche di legami deboli e di una costruzione di micro-relazioni e di viralità comunicativa tra cittadini connessi e produttivi”) imponeva una catena di comando chiara e definita, non ammetteva policefalia.
È in questo senso che Casaleggio ha tradito la "sua" idea, è così che la sua utopia si è trasformata in distopia: la sua "colpa" è stata l'aver abiurato il mito della Rete, dell'esponenzialità della crescita del pensiero critico e della riflessione teorica in grado di risolvere problemi, determinare soluzioni, rimettere in circolo informazioni e nozioni. Il punto è stato l'aver impostato una comunicazione di tipo top down, depotenziando la forza dirompente del messaggio 5 Stelle sui social network (che spesso è nascosto tra click baiting, mezze bufale, allarmismo e disinformazione) e finendo con il sovrapporre "concettualmente" le pratiche aziendali a quelle politiche. Un errore, probabilmente, al cui superamento ha lavorato tanto, immaginando, certo non da solo, la soluzione.
Che rappresenta parte consistente dell'eredità che Casaleggio lascia al M5S. È Rousseau, il sistema operativo lungamente atteso che nelle intenzioni rappresenterà uno strumento essenziale, non solo per la partecipazione degli iscritti al percorso decisionale, ma anche per la fase di controllo dell'attività degli eletti, per la loro selezione e crescita politica. Uno strumento che però avrà senso solo se consentirà al Movimento di ripensare sé stesso, di evolvere, di cambiare continuamente.
Da ultimo, ma non per importanza, va considerato che in Rousseau c'è anche la traccia per la stabilizzazione finanziaria del Movimento 5 Stelle, con la volontà di puntare sul crowdfunding per sopperire alla rinuncia al finanziamento pubblico senza compromettere "l'integrità" del lavoro parlamentare con delle pratiche che innervosiscono non poco militanti e attivisti della prima ora.