Scola: “Fellini è stato il regista più politico del cinema italiano”
Diciamo pure che si è trattata dell’ennesima “lucherinata”. Roma, martedì 4 giugno ore 11:30, conferenza stampa in pompa magna nel Teatro 5 di Cinecittà, presentazione di "Che strano chiamarsi Federico, Ettore Scola racconta Fellini": molti colleghi, solita corte romana di amici degli amici-degli amici, un sontuoso buffet. Ad accoglierci il press agent più famoso d’Italia, quasi un monumento vivente, al secolo Enrico Lucherini (quello delle note bischerate come il finto rogo dei capelli di Sandra Milo o lo spogliarello di Aiche Nanà, finito poi dritto dritto nella "Dolce vita").
Accompagnato da Silvia Scola, figlia di Ettore e co-sceneggiatrice del film insieme alla sorella Silvia, l’Enrico nazionale ci porta a spasso per il gigantesco Teatro 5 intrattenendoci con aneddoti e curiosità. Poi viene il turno di Silvia Scola che racconta, con il raffinato garbo dei figli d’arte, le tappe della lavorazione del film, la ricostruzione delle location, le ricerche negli archivi del Luce, ecc… Tutto fila liscio.
Ma la sorpresa, la “lucherinata” di cui sopra, scatta al momento in cui ci accomodiamo in poltrona e il padre Ettore prende finalmente la parola, svelandoci che il film è appena approdato al montaggio. Quindi niente proiezione! «E quando sarà pronto?» sbotta qualcuno dalla platea, «e chi lo sa!» risponde placidamente il regista. Aggiungeteci pure che Scola, ritiratosi dal mondo del cinema dieci anni fa, è uno che pure da giovane era famigerato per i suoi tempi biblici in fase di montaggio. «Speriamo – aggiunge –, di farcela per il 31 ottobre», data in cui ricorre il ventesimo anniversario della morte del grande riminese. Ciò premesso, e avendo finalmente capito che si tratta di una conferenza di fine riprese, l’incontro prosegue all’insegna di un succoso dibattito sui temi del documentario.
Ma prima il regista di "C’eravamo tanto amati" si schernisce sui motivi che lo hanno spinto, alla veneranda età di 83 anni, a ritentare l’avventura del cinema: «è tutta colpa della produzione (Palomar e Istituto Luce) che mi ha costretto a fare questo film!». Poi si passa ai ringraziamenti di rito e ai giochi di sponda con gli ospiti in sala. Finalmente si comincia a fare sul serio quando Scola illustra i due punti fondamentali del suo “docu-ritratto”, come ama definirlo. Innanzitutto il primissimo Fellini, vignettista al Marc’Aurelio e, come secondo aspetto, più generale, una rilettura del cinema felliniano in chiave strettamente storico-politica: «è stato l’inventore di una realtà più determinante e comunicativa di quella che avevamo sotto gli occhi» esplode perentorio.
Effettivamente si tratta di due aspetti, poco noti al grande pubblico, ma che si innestano nel solco tracciato dagli studiosi di critica felliniana che, negli ultimi quindici anni, hanno animato un dibattito (molto specialistico) su quel prezioso strumento di approfondimento che era la rivista Amarcord, pubblicata fino al 2009 dalla Fondazione Federico Fellini e andata poi in malora insieme a un bel pezzo di cultura italiana. Ad ogni modo, l’importanza dell’apprendistato al Marc’Aurelio, uno dei più popolari giornali umoristici italiani, durato all’incirca dal 1939 alla seconda metà degli anni ’40, è certamente un punto centrale. Prima di addentrarci su questo sentiero è curioso notare non solo che i due futuri maestri si sono conosciuti proprio tra i corridoi di quel giornale, ma soprattutto che la redazione poteva vantare un team di fuoriclasse del calibro di Cesare Zavattini, Age e Scarpelli, Mario Bava, Ruggero Maccari e Stefano Vanzina. Tutti uomini di cinema. Tuttavia il vero nucleo del discorso “Marc’Aurelio” verte sullo stretto rapporto che nel cinema di Fellini si stabilisce tra il disegno umoristico, la cosiddetta caricatura, e la messinscena.
Antonio Costa, raffinato docente e studioso di cinema, alcuni anni fa ha individuato nella figurazione caricaturale una chiave di lettura privilegiata per interpretare il cinema felliniano: rifacendosi a "Arte e illusione" di Ernst Gombrich, Costa afferma che il disegno umoristico, attuando uno slittamento da verosimiglianza a equivalenza, finisce per imporre una propria grammatica espressiva del tutto autonoma, che in Fellini si sublima in quelle immagini meravigliose denominate, appunto, “felliniane”. Da qui deriva, seguendo la sua argomentazione, la funzione centrale che la sproporzione fra il dettaglio e l’insieme gioca nel cinema di Fellini e spiega la sua stringente necessità di muoversi in un teatro di posa, piuttosto che in esterno. Sofisticatezze teoriche? Può darsi, ma che spiegano efficacemente la grande attenzione che negli ultimi anni è stata rivolta ai disegni di Fellini, esposti in modo crescente nei musei di mezza Italia e raccolti enciclopedicamente in quella straordinaria, recente, pubblicazione che è Il libro dei sogni (Rizzoli, 2008).
L’altro aspetto su cui Scola si concentra è quello, come si diceva, storico-politico. Fellini è stato ritenuto in passato un regista “disimpegnato”, apolitico, intrappolato nel cliché di cantore della memoria, di genio creativo ripiegatosi, col passare degli anni, sul trono di un’immaginazione bulimica e a tratti paranoide. Mentre a noi contemporanei è del tutto evidente, e Scola prova a dimostrarlo, che esaminando la filmografia di Fellini ci si trova di fronte a dei resoconti straordinariamente puntuali dello sviluppo urbano, dell’evoluzione del costume e più in generale della cultura italiana del secondo Novecento, nonché di un approccio fortemente anticlericale. Secondo Giandomenico Amendola, illustre sociologo esperto di evoluzione urbana, molte opere di Fellini sono come delle inchieste (il nostro era un grande fan del commissario Maigret) che, pur muovendosi nei territori del fantastico e dell’umorismo, offrono la possibilità di decifrare una parte importante della storia italiana.
Fellini ha, in altre parole, dato forma e diffuso la città che era in noi – nei sogni, nei desideri e nelle esperienze degli italiani – restituendo, allo stesso tempo, una città immaginaria attraverso cui vivere quella reale. In questo senso ha contribuito, ad esempio, a creare la Roma contemporanea (dalla "Dolce vita" a "Roma" e "Ginger e Fred"), composta, nell’immaginario collettivo, in ugual misura da informazioni, esperienze, sogni e racconti che, impastandosi tra loro, rendono indistinguibili le loro stesse fonti.