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Scandalo LuxLeaks: accordi segreti per non pagare miliardi di tasse

Secondo i documenti che stanno emergendo dall’inchiesta LuxLeaks almeno 340 grandi aziende mondiali hanno stretto accordi segreti col Lussemburgo, per ridurre o azzerare l’imposizione fiscale sui propri utili. La Ue ora indagherà, ma il vero scandalo sta a monte…
A cura di Luca Spoldi
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Sta facendo scalpore sui media mondiali (un po’ meno su quelli italiani) l’inchiesta LuxLeaks, promossa dall’International Consortium of Investigative Journalism (Icij) e ripresa con clamore da una cinquantina di testate giornalistiche mondiali (in Italia la rilancia l’Espresso), dalla quale emerge come il Lussemburgo abbia in questi anni stretto accordi segreti con 340 grandi aziende di tutto il mondo per attrarre capitali in cambio di un forte abbattimento delle imposte. Una pratica, qui sta il vero scandalo, che sembrerebbe perfettamente legale alla luce dell’attuale normativa comunitaria, che però finisce col ridurre le entrate fiscali dei paesi di Eurolandia.

A stringere vantaggiosi accordi col fisco del Granducato, il cui ex premier, per 18 anni, Jean-Claude Junker, attuale presidente della Commissione Ue, si è detto pronto a “far luce” sull’accaduto (immaginiamo tra una bacchettata e l’altra al governo italiano) è stata, per conto di centinaia di suoi clienti, una delle quattro grandi società di revisione contabile al mondo, PricewaterhouseCoopers, i cui consulenti fiscali hanno elaborato strategie finanziarie che prevedono finanziamenti tra società appartenenti allo stesso gruppo e altre soluzioni in modo da spostare i profitti da una società ad un’altra per ridurre al minimo o anche azzerare il reddito imponibile (e pertanto il prelievo fiscale in capo alla società dove gli utili si erano originariamente generati).

A scorrere tra i nomi del lungo elenco si incontra il “fior fiore del big business mondiale, non solo europeo. Tra le società dell’energia c’è la tedesca e.On assieme alla russa Gazprom, nel settore alimentari-bevande spiccano le statunitensi Coca-Cola, Heinz e Pepsi Bottling Group, tra i gruppi farmaceutici non si sono lasciata sfuggire l’opportunità la britannica GlaxoSmithKline e la statunitense Millipore, tra le società industriali si notano nomi come l’americana Navistar (gruppo Caterpillar) e la tedesca Volkswagen, tra i media le britanniche McGrawHill e Guardian Media Group vanno a braccetto, mentre tra le società di distribuzioni spiccano i nomi delle americane Amazon.com, FedEx e Home Depot (ma anche Staples e Timberland sono presenti), della britannica Burberry e della svedese Ikea, mentre nel settore high-tech c’è solo l’imbarazzo della scelta tra Apple, Accenture, Verizon o Vodafone.

A fare la parte del leone sono peraltro le società finanziarie (che in molti casi controllano ormai celebri marchi in tutti i settori sopra ricordati oltre che di quello alberghiero-turistico, che pure vede non pochi nomi in elenco). Hanno trovato il modo di pagare meno tasse possibili il venture capitalist britannico 3i e quello statunitense Apax Partners, piuttosto che il fondo Apollo Global Management (che in Italia ha appena rilevato le attività assicurative del gruppo Carige), la banca olandese Abn Amro, quelle britanniche Barclays e Hsbc e quelle francesi Bnp Paribas e Credit Agricole, oltre che la tedesca Deutsche Bank, l’assicurazione statunitense Aig, quella britannica Aviva e quella francese Axa e alcuni grandi nomi di Wall Street come Ge Capital (braccio finanziario di General Electric) o Merrill Lynch (controllata del gruppo Bank of America), oltre “naturalmente” ai vicini di casa svizzeri Julius Baer, Ubs, Credit Suisse, Lombard Odier e Groupe Rotschild.

E i gruppi italiani? In tutto nell’elenco sono presenti 34 nomi di società con interessi in Italia, se da questi si escludono le controllate tricolori di gruppi internazionali resta comunque una piccola pattuglia di imprese italiane (ma alcuni nomi devono ancora essere aggiunti ai documenti) che hanno saputo approfittare della benevolenza del Granducato per ridurre il proprio carico fiscale: Banca delle Marche, Banca popolare dell’Emilia Romagna, Finmeccanica, Banca Sella, Intesa Sanpaolo, Ubi Banca e Unicredit sono tutte presenti. Il Lussemburgo non è del resto una terra sconosciuta (anzi) ad aziende e finanzieri italiani:già ai tempi della scalata di Telecom Italia da parte di Roberto Colaninno e Chicco Gnutti venne utilizzato una holding lussemburghese, Bell, che successivamente girò la partecipazione di controllo dell’ex monopolista telefonico italiano a Marco Tronchetti Provera, azionista di controllo del gruppo Pirelli. Accusata successivamente dall’Agenzia delle Entrate di aver evaso 600 milioni di euro grazie a quell’operazione, Bell e i suoi azionisti finirono col pagare una multa da 156 milioni rispetto all’iniziale richiesta dell’Agenzia di 1,937 miliardi.

In tutto grazie agli accordi presi tra il 2002 e il 2010, le oltre 340 aziende segnalate dall'inchiesta LuxLeaks hanno “investito” in Lussemburgo non meno di 215 miliardi di dollari, ma la cifra è fortemente approssimata per difetto visto che, come precisano gli analisti di Icij, “meno del 30% degli accordi fiscali dei documenti trapelati includono una cifra specifica per la quantità di denaro che le aziende hanno indicato di prevedere di “investire” attraverso gli accordi col Lussemburgo”. E’ dunque impossibile, allo stato attuale, risalire ad una cifra attendibile dell’elusione fiscale che simili accordi, su cui ora indagherà più approfonditamente il neo Commissario Ue alla concorrenza Margrethe Vestager. Ma una cosa è chiara: in tutta Europa le regole fiscali vanno riscritte e soprattutto vanno interpretate in modo univoco.

Se è legittimo (ed auspicabile) che un’azienda cerchi di ridurre al minimo il carico fiscale che grava sulle sue spalle, non si può a mio parere consentire che riescano in tale intento solo un piccolo numero di grandi gruppi, mentre la gran parte delle aziende sostengono un peso fiscale nettamente più elevato. E’ sicuramente una forma di concorrenza sleale, ma ancor più è fonte di diseguaglianza sociale e dovrebbe indurre i governi dell’Eurozona (e non solo loro) se sia il Lussemburgo ad aver “peccato”, sia stata l’Unione Europea ad aver avuto (o voluto avere) gli occhi chiusi per troppo tempo, o forse non sia il caso di invertire la politica di repressione fiscale che ha portato alcuni paesi come l’Italia a far schizzare all’insù la pressione fiscale per tutte quelle aziende e quei lavoratori che un accordo col Lussemburgo non possono permetterselo. Grave sarebbe se passata la consueta ondata di “indignazione mediatica” tutto rimanesse esattamente come prima.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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