Savina Caylyn, parla il comandante: Se non si chiude la trattativa, ci tortureranno fino alla morte
E' la voce del comandante Giuseppe Lubrano Lavadera, quella voce che in molti hanno imparato a conoscere in questi mesi, a lanciare l'ennesimo ultimatum da parte dei pirati somali. Secondo quanto riporta Il Mattino, dopo la drammatica telefonata di venerdì, ieri pomeriggio alle 18, Nunzia Nappa ha potuto nuovamente parlare suo marito Giuseppe. Quella del comandante della Savina Caylyn era una voce flebile e depressa, come la moglie stessa ha riferito. Con quella voce, che porta dentro sé tutte le angherie, gli stenti e la disperazione degli ultimi 8 mesi, Giuseppe ha lanciato l'ultimo accorato ultimatum:
Per l’amor di Dio, aiutateti a non morire. Cara Nunzia dillo a tutti: all’armatore e alla Farnesina. Se entro una settimana non si chiude la trattativa, qui a bordo inizieranno le torture sistematiche di tutti i membri dell’equipaggio.Con conseguenze tragiche. Questi ci preannunciano che ci ammazzeranno ad uno ad uno. Santo Iddio, perché? Che male abbiamo fatto per non essere aiutati? Siamo persone che sono andate a guadagnarsi il pane onestamente in un tipo di lavoro duro, pieno di sacrifici, sul mare.
Nunzia è tesa, capisce che nell'aria si agita la possibilità che accada qualcosa di irrecuperabile e vuole parlare con un altro membro dell'equipaggio. Ma i pirati glielo vietano, allora Giuseppe le domanda come stiano i suoi genitori e i suoi figli. Nunzia si fa coraggio e propone di passargli sua figlia. La telefonata si interrompe, dopodiché arriva il no di Giuseppe: "Nunzia, questi non vogliono che parli con altri, nemmeno con mia figlia”. Poi, prima di chiudere ha ribadito: "Aiutateci a non morire. Questi ci ammazzano. Se non succede niente, questa è la nostra ultima settimana di vita".
Incredulità, sconforto, e paura: i sentimenti che albergano negli animi dei membri dell'equipaggio della Savina Caylyn, in ostaggio da 8 lunghi mesi devono essere proprio questi. Trascorrono i giorni e nulla sembra far sperare in una risoluzione del problema: lo Stato Italiano, nonostante i comunicati ufficiali in cui si dichiara disposto a seguire la vicenda, oltre che vicino ai familiari, non può pagare il riscatto. Se lo facesse, in qualche modo, favorirebbe il fenomeno della pirateria e questo non sembra essere possibile adesso. Nonostante altre volte sia stato fatto.
L'armatore D'Amato, dal canto suo, dopo una prima trattativa con i pirati avvenuta attraverso uno studio legale di Londra e miseramente fallita, non risponde ad alcun richiamo dei familiari, e sembra essere totalmente irreperibile. Tutto ciò accade quando ormai sono trascorsi oltre 8 mesi dal sequestro, mentre in Somalia, giorno dopo giorno i marinai a bordo della Savina muoiono nel fisico e nella mente.
Soltanto venerdì, Eugenio Bon, triestino di 30 anni, chiedeva soccorso al padre. Riferiva di non riuscire più a camminare, di avere problemi alla pelle. Anche lui si interrogava sul perché fossero ancora lì, sul perché lo Stato Italiano, di cui fa parte ogni nave battente bandiera italiana come la Savina, non avesse ancora provveduto a portare a casa i suoi figli. Quei 22 lavoratori, 5 italiani e 17 indiani, rei soltanto di aver attraversato, per lavoro, un fazzoletto di mare infestato dai predoni che, dopo un rapido blitz hanno tratto in ostaggio la nave e le loro vite.
Oggi la moglie del comandante, assieme ai familiari degli altri procidani in ostaggio, si è recata presso la Cattedrale di Napoli per chiedere una grazia al Santo Patrono della città partenopea. La fede sembra essere uno degli ultimi appigli per chi, come loro, non si dà pace e da 8 mesi combatte per riportare a casa i propri cari.