Ci deve essere qualcosa di tossico, virulento e altamente pericoloso nel linguaggio di Matteo Salvini, ministro dell'interno che vede pirati e ONG ovunque nel Mediterraneo se davvero è riuscito a parlare della Sea Watch 3, che da giorni continua caracollare in mezzo al Mediterraneo in cerca di un approdo sicuro al limite delle acque territoriali italiane, come di pirati e di sequestratori. È una discesa verso il vocabolario degli inferi che ha radici profonde, e che non vede come protagonista solo il ministro ma parte dall'atteggiamento sospettoso verso le ONG del fu ministro Minniti, fino ai famosi taxi del mare che vennero sdoganati con tanta rilassatezza da Luigi Di Maio. Ci deve essere anche una sordità cieca, qualcosa di simile all'incapacità di intendere o forse all'ostinazione di non voler vedere, se lo stesso ministro dell'interno, smentendo centinaia di inchieste, di documenti, di testimonianze e di documenti ufficiali, continua a ripetere che la Libia sarebbe un porto sicuro per tutti quei disperati che proprio dalla Libia partano pieni di cicatrici, gonfi di vessazioni e continuano a ripeterci che preferiscono la morte certa piuttosto che tornare alla vita incerta di quelle prigioni libiche che qualcuno ha anche il coraggio di chiamare centri d'accoglienza.
Così alla fine le parole piane e semplici del Consiglio d'Europa che dice "i migranti salvati in mare non dovrebbero mai essere sbarcati in Libia, perché i fatti dimostrano che non è un Paese sicuro" attraverso la voce di Dunja Mijatovic, commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, che si dice "preoccupata per l'atteggiamento del governo italiano nei confronti delle Ong che conducono operazioni di salvataggio nel Mediterraneo", risultano essere l'ennesima ripetizione di un concetto già chiaro per molti mentre dall'altra parte tra i seguaci del capitano leghista vengono vissute come l'ennesima intrusione a un respingimento che non si è mai realizzato al di fuori dei social.
Così, in un processo di deturpazione delle parole accade addirittura che il ministro possa definire l'equipaggio della Sea Watch sequestratori proprio lui che per sequestro di persona è stato indagato, se n'è dichiarato fiero e poi ha deciso di scappare dal processo con la coda tra le gambe e l'aiuto dei suoi alleati grillini. E sarebbe bello che il ministro dell'interno ci dicesse come facciamo noi, che piuttosto che snaturare le parole ameremmo vedere applicate le leggi e i trattati internazionali, a valutare il suo atteggiamento messo di fronte alle regole se proprio lui, accusato di essere un sequestratore, si ritira dal processo e indica sequestratori ovunque in un rovesciamento della realtà che ha qualcosa di comicamente tragico e che al solito si svolge sulla pelle dei disperati.
Sarebbe da chiedergli se non sia il caso di recuperare il senso delle parole, una sorta di ecologia del linguaggio, che confonde la realtà e che ha trasformato il linguaggio ne nuovo randello da agitare contro i nemici e gli oppositori senza dare mai spiegazioni. Ma sarà una domanda senza risposta. Sicuro.