Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi Banca in allungo stamane in borsa a Milano, dopo che i tre istituti hanno annunciato che parteciperanno, pro quota, al salvataggio di quattro banche italiane minori (Banca Marche, Banca Etruria, Carife e Carichieti), da tempo in crisi sotto il peso di sofferenze e crediti di dubbia esigibilità che hanno portato il governo a intervenire per evitarne il fallimento. E’ stata infatti costituita una “bad bank” pubblica cui sono state girate le sofferenze delle quattro banche, dopo aver abbattuto il valore delle stesse da nominali 8,5 a soli 1,5 miliardi di euro (ossia la “bad bank” ha acquistato questi asset pagandoli il 21,17% del loro valore nominale).
Tali sofferenze, come ha precisato la Banca d’Italia, verranno in seguito cedute a specialisti in recupero di crediti problematici o gestite internamente per cerare, e qui sorge la prima criticità dell’operazione, di recuperare appunto gli 1,5 miliardi di euro di valore che si è stimato possano ancora avere tali asset patrimoniali. Intanto le parti “sane” delle quattro banche (“bridge bank”) sono state ritargate, aggiungendo fin da stamane alla vecchia denominazione l’aggettivo “nuova”, senza per ora toccarne le reti di filiali che dunque restano tutte aperte e operative.
Ma chi ha pagato e pagherà i conti? Anzitutto i soci, dato che il valore delle azioni delle “vecchie” banche è stato azzerato, e i portatori di obbligazioni junior, o “subordinate” (che a loro volta hanno visto azzerato il proprio valore). Non è invece scattata la procedura, prevista dalle norme europee sui “bail in”, che avrebbe imposto perdite anche a tutti i correntisti con depositi sopra i 100 mila euro. E il management? Da tempo tutti gli istituti erano stati commissariati e i vertici azzerati: le quattro “banche ponte”, inoltre, sono tutte presiedute dall’ex direttore generale di Unicredit, Roberto Nicastro, nominato con gli altri amministratori dall’autorità di risoluzione della Banca d’Italia.
A erogare i fondi (3,6 miliardi di euro) alle banche ponte, per capitalizzarle e per coprire la differenza (negativa) fra il valore residuo degli attivi trasferiti e le passività è invece stato il neocostituito Fondo di risoluzione, come indicato dalla Commissione Ue che ha in pratica dettato l’intera procedura di liquidazione delle quattro banche fallite. Cade così l’ipotesi che a fornire i fondi per il salvataggio potesse essere il Fondo interbancario di tutela dei depositi, alimentato dai versamenti degli istituti di credito e che si occupa della tutela dei conti correnti al di sotto dei 100 mila euro di deposito (secondo la Commissione Ue avrebbe potuto configurarsi come un “aiuto di Stato” in contrasto con la disciplina comunitaria).
Le banche italiane contribuiranno comunque al salvataggio, dato che il Fondo di risoluzione preleverà subito il contributo annuo (pari a 500 milioni di euro) al Fondo interbancario che l’intero sistema bancario italiano doveva effettuare per il 2015 e insieme si farà anticipare i contributi dei prossimi 3 anni per altri 1,5 miliardi di euro. A questi 2 miliardi si sono infine aggiunte due linee di credito per 3,6 miliardi di euro complessivi di cui la prima (2,35 miliardi di euro) da rimborsare a fine anno grazie all’incasso dei contributi “anticipati” al fondo da parte delle banche italiane e la seconda (1,65 miliardi) a 18 mesi meno un giorno, da rimborsare tramite i proventi derivanti al Fondo dalla vendita al miglior offerente delle quattro banche ponte.
Sono queste due linee di credito (che si configurano come due “finanziamenti ponte”), remunerate a tassi di mercato, ad essere state erogate da Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi Banca. Ma se non vi fossero acquirenti pronti a sborsare, da qui ai prossimi 18 mesi, 1,65 miliardi di euro per rilevare i quattro istituti sia pure così “mondati” dai peccati commessi finora, ossia dai crediti di dubbia esigibilità? E’ qui che gioca un ruolo “sistemico” Cassa Depositi e Prestiti, che ha assunto un impegno di sostegno finanziario in caso di incapienza del fondo alla data di scadenza del finanziamento. In questo modo, si noti, una parte del rischio dell’intera operazione ricade, sia pure indirettamente, sul risparmio postale.
Rispetto all’ipotesi più volte ventilata di creazione di una “bad bank” sistemica l’operazione ha il pregio di aver visto valutate in modo molto severo i “non performing loan” che gravavano sui bilanci dei quattro istituti falliti. Si tratta di vedere ora se i gestori della “bad bank” riusciranno a venderli a qualcosa più di quanto sono stati pagati o meno, ma certo non si può non notare come tutti coloro che a gran voce hanno suggerito “l’opportunità” di procedere alla creazione di tale “bad bank” sistemica in questi mesi hanno rinviato più volte la cessione dei propri crediti non performanti non avendo trovato intermediari interessati a pagarli il 30%-35% del valore nominale (le sole cessioni fatte da banche come Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Banco Popolare e altri istituti sarebbero infatti avvenute, mediamente, attorno al 15%-20% del valore nominale dei crediti ceduti).
La seconda, più preoccupante, considerazione che sorge spontanea è che se per salvare quattro istituti di piccole dimensioni il Fondo di risoluzione ha dovuto farsi anticipare i versamenti di quattro annualità (da quest’anno al 2018 compreso) dall’intero settore bancario, i casi sono due: o i versamenti sono stati sinora troppo modesti e andrebbero alzati, con inevitabile ulteriore compressione dei già esigui margini di redditività delle banche italiane e altrettanto inevitabile spinta al taglio ulteriore dei costi (che significherebbe chiusure di filiali poco redditizie e migliaia di nuovi licenziamenti in arrivo), o i costi di un “salvataggio di sistema” sono stati sottaciuti, cercando di farli gravare sull’intera collettività.
Visto che a fine settembre secondo Banca d'Italia le sofferenze nette in pancia agli istituti tricolori erano salite a 87,1 miliardi di euro (pari a 174 anni di contributi al Fondo interbancario), sarebbe opportuno che questo caso faccia aprire gli occhi all’opinione pubblica mostrando quanto pernicioso sia stato mantenere, attraverso le Fondazioni, sostanzialmente intatto il cordone ombelicale tra la politica (locale o nazionale che sia) e le banche. Per una volta l’Italia ha l’occasione per scoprire il costo di non premiare il merito ma le sole relazioni (o le parentele) e cambiare di conseguenza.
Di certo la novità non piacerà a tutti ed è facile prevedere che si cercherà di distogliere l’attenzione, magari pontificando sugli “attacchi alla difesa del territorio”, sugli “speculatori che minano l’ecosistema italiano” per “comprarsi per pochi spiccioli i nostri gioielli” o sugli “ottusi burocrati europei” che non capiscono la nostra “diversità”. Io la capisco fin troppo bene e spero la capiscano sempre di più i risparmiatori-contribuenti-elettori italiani: come ripeto da anni, la crisi italiana è prima culturale e poi economico-finanziaria. Sarebbe ora di provare a ripartire cambiando modelli di riferimento.