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Opinioni

Salvare l’euro? Riforme strutturali e lotta al “nero”

Mercati ancora in altalena per una serie di dati negativi e la sensazione che per trovare una soluzione alla crisi occorrerà tempo. Quello necessario a varare riforme e sconfiggere l’evasione.
A cura di Luca Spoldi
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Mario Monti incontra Jose Manuel Barroso

Mario Monti va a Bruxelles, ma i mercati dopo una tiepida per quanto positiva accoglienza (in mattinata le borse guadagnavano oltre mezzo punto percentuale) mettono nuovamente la prua a Sud e chiudono in rosso. Non solo Piazza Affari, che cede un altro punto e mezzo, ma tutta Europa, in rosso tra il mezzo punto e il punto percentuale abbondante (con la parziale eccezione di Londra, che limita i danni a un modesto -0,30%). Così la domanda che sorge spontanea è nuovamente: ma allora questa Eurolandia e questo euro sono proprio da buttare?

Non necessariamente: nel breve periodo prevalgono infatti considerazioni contingenti e nel caso odierno a prevalere sono state una serie di brutte notizie, come la riduzione dal +2,5% al +2% della stima sulla crescita del Pil degli Stati Uniti nel terzo trimestre (che resta peraltro il più forte da inizio anno), a causa di un calo delle scorte e di un incremento minore di quanto inizialmente previsto degli investimenti, oltre ad un esito negativo dell’asta dei titoli a breve termine spagnoli. Quest’ultimo evento ha risentito, come già accaduto per le aste dei titoli italiani o di altri periferici, del fatto che la Bce, che continua a comprare sul secondario titoli di stato dei paesi maggiormente sotto pressione (e che secondo calcoli degli analisti di Banca Aletti, gruppo Banco Popolare, dovrebbe aver ormai speso circa 200 miliardi di euro in tutto), non può per statuto intervenire in asta. Così in assenza di investitori esteri (ormai merce rara) a sottoscrivere i titoli non possono che essere le banche dei singoli paesi, per sé e per i propri clienti.

Intendiamoci: visto che i tassi sui titoli di stato spagnoli a 3 e 6 mesi (collocati per 2,98 miliardi di euro, appena sotto l’obiettivo massimo di 3 miliardi) sono saliti rispettivamente al 5,11% per i trimestrali (dal 2,292% precedente e contro il 4,63% pagato dalla Grecia solo lo scorso 15 novembre) e al 5,227% per i semestrali (dal 3,302% dell’asta del mese scorso) se alla fine la Spagna (come l’Italia) non dovesse collassare nelle prossime settimane, le banche ci guadagnerebbero, proprio come ci guadagna la Bce.

Le banche, infatti, possono finanziarsi presso l’istituto centrale europeo pagando l’1,25%  annuo (e probabilmente da dicembre potranno farlo all’1% e contare su un’ulteriore offerta di liquidità a un anno) e lucrando la differenza, ormai prossima al 4% annuo. La stessa Bce guadagna ancora di più visto che remunera la liquidità che le banche commerciali europee (non fidandosi tra loro) lasciano nei suoi depositi appena lo 0,5% all’anno (e dunque investendo in titoli decennali che rendono tra il 6,6% e il 6,8% all’anno e rispetto ai quali non corre, come si è visto nel caso della Grecia, il rischio di essere coinvolta in un’eventuale ristrutturazione del debito, rischio che invece corrono le banche private, può guadagnare oltre il 6% all’anno).

C’è una differenza: gli eventuali guadagni delle banche nazionali vanno a beneficio di ciascun paese (visto che contribuiscono, di più o di meno, a finanziare la crescita economica sia direttamente con la propria attività sia indirettamente con la tassazione dei propri guadagni), mentre gli utili della Bce vengono alla fine redistribuiti tra tutti i partecipanti all’Unione europea, compresi i “virtuosi” Germania e Olanda. Che proprio per questo insistono a non voler sentir parlare di Bce come “prestatore di ultima istanza” e sembrano molto restii anche a fare concessioni circa la possibilità di arrivare a emettere Eurobond comunitari. In questo “muro contro muro” Berlino e Amsterdam rischiano alla lunga (se hanno ragione gli economisti più critici come Roubini o Krugman) di far saltare per aria l’intero progetto dell’euro e rimanere come suole dirsi coi cocci in mano. Ma per il momento il loro invito pressante al “rigore” produce qualche nuova misura correttiva (sia pure molto lentamente) da parte dei “lazzaroni” del Sud Europa, che si sentono espropriati della propria sovranità nazionale ma sanno di avere poche alternative a disposizione, salvo fare fronte comune con la Francia e cercare di ammorbidire le posizioni più intransigenti dei paesi “core” (che il Wall Street Journal si immagina nel 2020 potranno comandare su un nucleo benestante di “Stati Uniti d’Europa”, circondati dai “periferici” in cui la popolazione invecchierà e la disoccupazione schizzerà al 20%).

Nel mezzo, tra le tensioni dei mercati, i calcoli e gli interessi dei vari investitori e delle loro compagini azionarie, i moniti degli Stati Uniti e della Cina (cui un’Europa debole fa comodo solo fino al punto in cui non crea turbative all’economia mondiale) e le incertezze delle autorità europee, che continuano a non decidere o meglio a litigare tra loro per arrivare a una qualche soluzione (che resta lontana e dagli effetti non immediati, che si tratti di far decollare finalmente l’Efsf “potenziato” o dare maggior spazio all’Fmi o consentire l’emissione di Eurobond), Mario Monti e i suoi colleghi in Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, ma anche Belgio, Finlandia e Ungheria (l’elenco si arricchisce ogni giorno al punto che qualcuno inizia a parlare non più di PIIGS ma di EEG, ossia “everything except Germany”, tutti quanti tranne la Germania) debbono affrontare problemi simili a quelli che valgono a livello comunitario: trovare il modo di varare riforme che siano strutturali, eque, in grado di non arrestare ma anzi stimolare una crescita già asfittica, possibilmente dimostrarsi socialmente eque e sopportabili.

Un compito da far tremare i polsi ma non impossibile, che passa, non mi stancherò mai di ripeterlo, per una rivoluzione culturale che metta gli evasori (e corrotti, corruttori, ladri e malfattori di ogni risma) con le spalle al muro e li obblighi a pagare le tasse come tutti quanti, accompagnando necessariamente il recupero di gettito a un parallelo calo delle aliquote, ormai a livelli insostenibili soprattutto in Italia. Dove il 43,5% di imposizione fiscale media, che qualcuno calcola corrisponda in realtà ad un 52%-53% complessivo, viene stimato senza eliminare l’evasione, col risultato che i contribuenti pagano effettivamente ancora di più.

L’emersione del “nero” che misure come la riduzione dell’utilizzo del contante e l’obbligatorietà di dichiarazione patrimoniale a inizio anno potrebbero favorire, dovrà dunque essere accompagnato da misure in grado di far calare a un 43,5% “effettivo” (o anche meno se possibile) il prelievo medio nelle tasche degli italiani (tutti, finalmente). Così magari anche la correzione del sistema previdenziale, necessario come forma di “manutenzione ordinaria” ma che sarebbe un errore stressare eccessivamente (se non altro perché a mantenere gente sempre più anziana al lavoro a parità di altri fattori si riducono in parallelo e le opportunità di impiego per i giovani e la produttività delle aziende) potrebbe essere più graduale, equa ed efficiente. A vantaggio tanto degli italiani quanto dei virtuosi paesi “core” europei come Germania e Olanda.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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