Sostiene Alessandro Fugnoli, strategist della società di gestione Kairos Partners, nell’ultimo numero della newsletter “Il Rosso e il Nero” che da qui al G20 del 3 e 4 novembre prossimo i mercati finanziari assisteranno a nuovi “effetti speciali, ma anche sostanza”, in un crescendo di nuovi annunci di misure straordinarie, dati macro e dichiarazioni rassicuranti da parte delle autorità europee e mondiali per cercare di risolvere una volta per tutte la crisi del debito sovrano che da oltre un anno e mezzo tiene in scacco i mercati e rischia di essere una concausa di un nuovo rallentamento ciclico che per il momento il Fondo monetario internazionale (Fmi) sembra escludere solo per l’Asia, grazia alla forza di cui dispone la Cina e al consolidarsi della ripresa economica in Giappone.
“Di fronte alle misure in preparazione per la Grecia e l’Europa, i mercati non sono spettatori obiettivi e distaccati che attendono di valutare le decisioni che verranno annunciate” spiega Fugnoli, che ricorda come “vendi e poi chiediti perché l’hai fatto” fosse il motto del ribasso, mentre “compra e poi domandati se aveva senso farlo” sembra essere il motto del rialzo in corso. Tuttavia, ammette l’esperto, dopo il 4 novembre, spente le luci della ribalta del G20, tutto si farà più complicato, specie se agli effetti speciali gli investitori non dovessero riconoscere immediatamente una “sostanza” adeguata.
L’impressione, anche dopo gli annunci giunti ripetutamente dalle autorità francesi e tedesche, è che i governi europei intendano darsi, per quanto riguarda le banche, “obiettivi ambiziosi con i soldi degli altri, ovvero dei privati, che saranno chiamati a fornire la gran parte dei nuovi capitali”, spiega Fugnoli che conclude: “Corretto, ma molto costoso per gli azionisti”. I quali azionisti (o meglio i manager da loro nominati) non sembrano affatto rassegnati all’idea di dover pagare più di quanto finora previsto (lo scorso 21 luglio le maggiori banche si erano accordate per accettare un “haircut”, ossia un taglio dei rimborsi dei capitali investiti in titoli di stato greci, pari al 21%, mentre ormai si parla a seconda delle fonti di un taglio tra il 40% e il 60%).
Il più esplicito è stato il numero uno di Deutsche Bank, Josef Ackerman, che ha tuonato: se le banche dovranno sopportare perdite più alte di quanto ipotizzato vi è il rischio di un nuovo “credit crunch”, ossia di una nuova stretta dei finanziamenti. A pagare, insomma, rischiano di essere ancora una volta imprese e famiglie. Una minaccia neppure troppo velata che anche la Banca centrale europea (Bce) pare prendere sul serio, ammonendo a sua volta che un coinvolgimento “forzato” dei bondholder privati nel salvataggio della Grecia attraverso l’imposizione agli stessi di perdite superiori a quanto finora preventivato metterebbe a rischio la stabilità finanziaria del settore creditizio europeo (cosa che finirebbe con lo strangolare definitivamente ogni speranza di ripresa per l’anno venturo e quello successivo, mettendo in serie difficoltà pressoché tutti gli esecutivi europei).
Come già detto ieri tutto ruota attorno ai numeri, che purtroppo restano al momento alquanto meno precisi di quanto non sarebbe opportuno per valutare razionalmente le migliori alternative sia in termini di investimenti sia di politica economica. Così oggi gli analisti del Credit Suisse sono tornati a esercitarsi con l’ipotesi di una vasta e in qualche modo coordinata ricapitalizzazione delle banche europee che potrebbe seguire alla pubblicazione dei risultati dello stress test effettuato “a sorpresa” dall’Eba (European banking authority) in questi giorni, ricapitalizzazioni che saranno evidentemente direttamente proporzionate all’esigenza di coprire perdite più o meno elevate.
Gli esperti svizzeri, che già avevano ipotizzato un costo massimo di 400 miliardi di euro nel caso in cui si fosse voluto garantire un livello di Core Tier 1 (un indicatore patrimoniale riferito al capitale di migliore qualità, ossia più facilmente esigibile) del 10,4% secondo le regole di Basilea III anche in uno scenario recessivo, hanno oggi precisato che se l’obiettivo fosse quello di un indicatore pari al 9% (come aveva suggerito ieri il Financial Times dopo che le prime voci circolate parlavano di un più contenuto livello pari al 7%) su 89 banche oggetto di indagine 66 istituti rischierebbero di non centrarlo e avrebbero bisogno di ricorrere a mezzi freschi per circa 220 miliardi di euro.
A rischiare maggiormente, hanno aggiunto gli esperti rossocrociati, sono tre “big” del calibro di Royal Bank of Scotland, Deutsche Bank e Bnp Paribas, che avrebbero bisogno di un ulteriore aumento di capitale per almeno 19, 14 e 14 miliardi di euro rispettivamente. Per quanto riguarda l'Italia gli analisti stimano che UniCredit potrebbe aver bisogno di quasi 12 miliardi di nuovi mezzi, Intesa Sanpaolo di altri 3,8 miliardi, Banco Popolare di almeno 3,1 miliardi, Banca Monte dei Paschi di oltre 2,3 miliardi e Ubi Banca di quasi1,6 miliardi.
Per riuscirvi le banche potrebbero ricorrere all’ingresso di nuovi soci, all’emissione di prestiti obbligazionari convertibili o in ultima analisi far ricorso a nuovi aiuti di stato, erogati però dal fondo "salva stati" Efsf (il cui rafforzamento sembra potrà essere approvato anche dalla Slovacchia entro il fine settimana) e non dalla Bce o dai singoli governi. Una formula che secondo gli uomini di Credit Suisse lascia irrisolti più dubbi di quanti ne chiarisca, il che potrebbe significare che sebbene le autorità europee si stiano finalmente muovendo nella giusta direzione dopo aver perso fin troppo tempo, i mercati potrebbero avere già ampiamente scontato i benefici di questa operazione, col rischio che passata l’euforia nell’ultima parte dell’anno le borse tornino a flettere.