Romeo Castellucci: “in Italia mi hanno sempre censurato” (Intervista)
Romeo Castellucci ha ricevuto quest'anno il leone d'oro alla carriera durante la Biennale del Teatro di Venezia, per il lavoro svolto fin dal 1981 con la sua compagnia, la Socìetas Raffaello Sanzio.
In oltre trent'anni di esperienza teatrale la compagnìa ha dato vita a molteplici spettacoli e performance teatrali: l'attenzione al lavoro vocale, all'immagine che possa produrre un impatto immediato, l'utilizzo di nuovi materiali, la rinuncia alla forma narrata pur senza mai rinnegare completamente la forma nel teatro, inseriscono la Socìetas nel novero dei gruppi teatrali di ricerca che in quegli anni, partendo dall'intento comune di destrutturare il linguaggio o di assecondare il lavoro sperimentale già messo in atto da artisti delle generazioni precedenti, hanno portato a risultati molto diversi e non sempre sorprendenti.
Alex Rigola, direttore del festival, motiva la scelta del premio con parole ricche di ammirazione: "Per aver fatto dell'Italia un riferimento internazionale attraverso la creazione e la rappresentazione delle sue opere alla fine del XX secolo e all'inizio del XXI." Bisogna ricordare che questo riconoscimento fa da contraltare alle critiche ricevute spesso da Castellucci; non troppo tempo fa l'artista ha dovuto difendere il valore artistico della propria performance "Sul concetto di volto nel figlio di Dio", contro la quale si sono scagliati i cattolici più radicali; ma già prima di allora il suo lavoro difficilmente è stato apprezzato e incentivato dalle realtà istituzionali italiane. Al di là del gusto personale, Romeo Castellucci è un grande escluso dai teatri più importanti d'Italia.
io amo poter rappresentare il mio lavoro nel mio paese. Perchè non succede, non lo so.
Castellucci ha partecipato al festival di quest'anno anche dirigendo un laboratorio teatrale, il cui risultato è stato mostrato al pubblico in un allestimento site-specific dal titolo "Natura e origine della mente". Il regista non ha lesinato complimenti sull'indirizzo dato al festival dal direttore, un indirizzo che a suo parere è anche un modo di vedere il teatro: il tentativo di stimolare vigorosamente le nuove generazioni ad interrogarsi e a instaurare un dialogo con le generazioni precedenti che li possa rendere, poi, protagonisti dei nuovi possibili percorsi teatrali contemporanei.
Castellucci afferma con convinzione di non sentirsi un maestro, nè tantomeno di valutare gli artisti secondo un grado di maturità ed esperienza; l'unico parametro valido a cui ci si deve anzi attaccare con forza, afferma l'artista, è l'opera che si produce. Per questo motivo ha incentrato il laboratorio non tanto sul suo intervento, quanto sul tentativo di stimolare la fantasia di chi vi ha partecipato, creando uno spazio in cui gli istinti e le idee dei ragazzi potessero realizzarsi concretamente. Nella messa in scena finale, probabilmente, conta più ciò che hanno imparato i partecipanti che non ciò che è stato presentato al pubblico; lo spettacolo, infatti, della durata di poco più che mezz'ora, rimanda alle riconoscibili simbologie della Socìetas Raffaello Sanzio, ma dopo l'accoglienza in una sala al cui centro pende dal soffitto, aggrappandosi solo con un dito ad un filo teso tra le pareti, una sorta di angelo in caduta imminente, non propone altro che una serie di piccoli testi provenienti da diverse fonti letterarie e giochi scenici che i partecipanti conducono senza la dimestichezza che ci si aspetterebbe da degli attori professionisti.