Vannini, i giudici: “Ciontoli autoritario, famiglia in soggezione non ha voluto aiutare Marco”
"Ciontoli ha interrotto bruscamente la prima telefonata al 118 effettuata dal figlio Federico e dalla moglie affermando: ‘non serve niente'; giunto al Pit di Ladispoli, ha poi preteso di conferire con il medico di turno, spiegando che l'incidente doveva essere mantenuto il più possibile riservato, in ragione del suo impiego alla Presidenza del Consiglio", scrivono i giudici della Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza con la quale hanno condannato la famiglia per l'omicidio volontario di Marco Vannini. Secondo i giudici della Suprema Corte, l'atteggiamento autoritario di Ciontoli ha messo in soggezione l'intera famiglia che, nonostante sapesse bene che il giovane aveva un proiettile in corso, in quel momento hanno smesso di fare qualsiasi cosa per salvarlo. "Lo stato di soggezione nel quale versavano i familiari si desume da molteplici circostanze: tutti gli imputati, dopo aver compreso l'accaduto, omisero di attivarsi per aiutare effettivamente Marco", si legge nelle motivazioni. Questo nonostante il ragazzo continuasse a urlare dal dolore, così come emerso dalle telefonate al 118 e dai racconti dei vicini di casa. Ma mentre Marco urlava, loro cercavano anzi di zittirlo, in modo da non richiamare l'attenzione del vicinato.
Si legge ancora nelle motivazioni che Antonio Ciontoli, come "militare appartenente alla Marina militare e successivamente distaccato ai Servizi segreti, detentore di armi da fuoco e autore dello sparo, ha gestito in maniera autoritaria l'incidente e ha da subito minimizzato l'accaduto, tentando di rassicurare i familiari con spiegazioni poco credibili". Questo non vuol dire che Maria Pezzillo, Martina e Federico Ciontoli, gli avessero creduto. Sono poco credibili le loro parole quando dicono di non sapere nulla di armi e non aver sentito lo sparo: Federico ha frequentato la Nunziatella, negli interrogatori userà parole tecniche come "ho messo in sicurezza le armi". Senza contare che la pistola è stata trovata eccessivamente pulita, senza nessuna traccia di impronte digitali. Sapevano che Marco aveva un proiettile in corpo, eppure non hanno fatto niente. Persino quanto Antonio Ciontoli raccontò ai soccorritori che Marco si era bucato con un pettine non dissero nulla. Anzi. Nelle motivazioni si legge che "Ancora di più in quel momento essi ebbero piena cognizione della gravità di quanto stava accadendo, con un padre evidentemente impegnato, in maniera pervicace e crudele, a ritardare un intervento di soccorso che potesse risultare adeguato per salvare la vita di Vannini".
Ricorre il principio per cui per la famiglia Ciontoli era preferibile la morte di Marco alla sua sopravvivenza. "Gli imputati ‘scelsero di non fare alcunché che potesse essere utile per scongiurare la morte, non solo rappresentandosi tale evento ma accettando la sua verificazione, all'esito di un infausto bilanciamento tra il bene della vita di Vannini e l'obiettivo avuto di mira, ovvero evitare che emergesse la verità su quanto realmente accaduto". E ancora: "Che la preoccupazione della famiglia Ciontoli fosse incentrata esclusivamente sulle conseguenze dannose, derivanti dalla situazione che era venuta a crearsi, si evince dal contegno tenuto da tutti gli imputati anche dopo aver appreso della morte di Vannini. Le risultanze delle intercettazioni ambientali acquisite – scrivono i supremi giudici – restituiscono un quadro illuminante sulla configurabilità del concorso doloso, giacché Antonio, Federico e Martina hanno pacificamente tentato di addivenire ad una versione concordata circa le pistole, su dove si trovassero, su chi le avesse prese e tolte dal bagno".