Torture e abusi nel centro della Croce Rossa: “Era un’eccellenza, degenerato dopo privatizzazione”
"Ho cominciato a lavorare alla Croce Rossa nel 1967, avevo ventidue anni. Sono stata la seconda diplomata in terapia della riabilitazione, era l'inizio di una nuova cultura. Ho lavorato in quel centro fino al 2010, quando sono andata in pensione: l'ho visto nascere, è stata una nostra invenzione. Inizialmente era il preventorio per i bambini esposti alla tubercolosi, ma c'erano anche bimbi sani, figli di persone povere. Quando abbiamo cominciato con le terapie riabilitative sono arrivati i primi ragazzi disabili: ed è allora che è nato il centro di educazione motoria, ai cui ragazzi davamo garanzia di una vita il più normale possibile".
Antonella Ticca oggi ha ottant'anni ed è un po' la memoria storica del Centro di educazione motoria della Croce Rossa oggi finito al centro delle cronache per le torture sui pazienti da parte di dieci operatori. Per più di quarant'anni ha lavorato tra quelle mura, assistendo pazienti gravemente disabili e aiutandoli a vivere una vita il più possibile normale. "Andavamo in vacanza, li portavamo al mare, facevamo gite e uscite. Venivamo dalla cultura della riabilitazione, mettevamo anima e corpo in quello che facevamo. Ho sempre avuto l'impressione che con la privatizzazione volessero liberarsi del servizio. E sentire che quel centro, una volta il vanto della Croce Rossa, è diventato un inferno, mi ha fatto molto male". "Sapevo che il servizio era in decadenza, ma non mi aspettavo questo. Secondo me la Croce Rossa dovrebbe dare conto di due punti fondamentali, di cui non si sta parlando: come veniva scelto il personale? E soprattutto, qual era la visione per un posto di questo tipo?".
I ragazzi un tempo partecipavano a laboratori, facevano attività per mantenersi attivi, ma soprattutto venivano curati giornalmente da tutta un'équipe di lavoratori che si occupava del loro benessere. "Ho lavorato al centro fino al 2017, anno in cui la Croce Rossa è stata privatizzata e siamo dovuti andare via – spiega Lorena Guidi, ex operatrice del Cem – La struttura era definita un ‘fiore all'occhiello' della sanità italiana, era l'unico centro in tutta Italia a operare in quel modo. Avevamo a che fare con persone gravemente disabili, la maggior parte delle quali non aveva bisogno di essere ospedalizzata date le cure che riceveva al centro. Per farvi capire il livello di assistenza, nessuno dei nostri pazienti aveva piaghe da decubito: li lavavamo e muovevamo giornalmente". Non c'era però solo la parte della cura fisica. "Avevamo la pet therapy, i laboratori, l'orto, la casa famiglia: nonostante le gravissime disabilità erano continuamente stimolati e monitorati. Quando c'è stata la privatizzazione, la maggior parte di questi servizi sono stati smantellati. Ragazze con disabilità cognitive lievi che erano impegnate in attività nella casa famiglia sono state unite ai pazienti gravissimi, cosa che ha portato loro molta sofferenza. All'epoca facemmo battaglie, presidi e manifestazioni contro la decisione di privatizzare, ma non fummo ascoltati. Ci saremmo aspettati non solo una delicatezza umana, ma anche istituzionale. Abbiamo perso, ma a pagarne lo scotto sono stati i pazienti, che non sono stati tutelati".