"Prima ci avete chiamato a mobilitarci contro l'occupazione di Teatro di Roma da parte della destra, poi ci sbattete fuori dal teatro con la celere schierata all'ingresso". Sono basiti, per dirla con Boris, i circa duecento partecipanti all'assemblea di ieri convocata alla quattro e mezzo del pomeriggio fuori al Teatro Argentina mentre è in corso il cda di Teatro di Roma che sancisce la pax tra i soci della Fondazione. Luca De Fusco rimane al suo posto con un ricchissimo contratto come direttore artistico, mentre si rivedrà lo statuto per sdoppiare le cariche e nominare un direttore generale di natura amministrativa.
Tutto è bene quel che finisce bene? Non per tante compagnie teatrali, molti cittadini, e associazioni, operatori della cultura e lavoratori e lavoratrici del settore, che si trovano fuori il teatro e che il giorno primo si sono riuniti in altrettanti alla Città dell'Altra Economia. La perdita di credibilità da parte del Campidoglio nei confronti di chi si trovava fuori dal teatro è evidente, e anche della stessa istituzione che ora dovrà farci i conti.
Qui c'è un variegato mondo che si sente emarginato dalla gestione della cultura a Roma, che non chiede poltrone e non fa il tifo per questo o quell'altro nome, che pretende trasparenza e dialogo, o come va tanto di moda dire ora "coprogettazione". Artisti e animatori di culturali che hanno imparato a farcela da soli, più spesso nonostante e non grazie alle istituzioni, che hanno più o meno successo, che stanno sul mercato e ci fanno i conti. Quando escono da Roma ricevono premi, spazi, riconoscimenti, dentro il Raccordo anulare solo pacche sulle spalle.
Comunità che nonostante tutto hanno la forza di pensare a tutta la città, alla cultura come elemento di crescita della collettività. In tanti qua fuori si ricordano come andò al Teatro Valle, quando gli occupanti uscirono nonostante la loro forza, perché si fidarono delle promesse PD e dei suoi manager della cultura. E ora il Teatro Valle forse finalmente riaprirà, non sappiamo ancora con quale progetto. Sono passati dieci anni.
Quando Christian Raimo ha convocato un'assemblea fuori l'Argentina il giorno dopo "l'allarme" lanciato dal presidente del cda Siciliano che gridava al golpe, l'assessore alla Cultura Miguel Gotor aveva promesso che la prossima volta si sarebbero aperte alla città le porte del teatro. È accaduto il contrario, e Gotor ieri non ha ritenuto necessario interloquire con chi stava fuori l'Argentina. Di più: da quanto sappiamo non ha neanche ritenuto necessario interloquire direttamente con i sindacati nel passaggio di Teatro di Roma a Fondazione, nonostante le molte criticità presentate da lavoratrici e lavoratori.
È stato Roberto Gualtieri a intervenire direttamente nella questione. Prima tuonando che era pronto a arrivare allo scioglimento della Fondazione e dettando un atto al consiglio comunale molto duro, poi conducendo la ricucitura istituzionale e infine a metterci la faccia parlando alla città dell'accordo raggiunto. Ancora ieri è stato Gualtieri a chiamare in Campidoglio a un incontro la piazza, per un faccia a faccia che si terrà domani.
Certo dopo questo pastrocchio non sarà facile ricostruire un dialogo costruttivo. Si potrebbe iniziare fidandosi un po' di più di chi, da quindici anni, con lo sfacelo delle politiche culturali a Roma ci sbatte la testa e la vita.