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Opinioni

Quello che si può dire su Tony Effe e la censura al concerto di Capodanno

Quello del Comune di Roma nei confronti di Tony Effe è stato un clamoroso autogol. Questo non vuol dire che i testi delle sue canzoni siano privi di problematicità e non possano essere criticati.
A cura di Natascia Grbic
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C'è poco da girarci intorno: quello del Comune di Roma su Tony Effe è stato un clamoroso autogol, un boomerang di dimensioni colossali che sta ancora finendo il giro prima di tornare indietro. In poche ore il Campidoglio è diventato bersaglio di attacchi feroci, tra chi l'ha tacciato di ‘boomerismo' e di essere totalmente incapace di parlare alle nuove generazioni, e chi di voler censurare un artista. Mahmood e Mara Sattei si sono sfilati dal concerto, e il rischio è che davvero la sera del 31 dicembre sul palco rimanga solo Gualtieri con la sua chitarra.

Lasciando da parte i deliri di chi già comincia a gridare alla ‘cancel culture‘, diciamo subito una cosa: ritirare l'invito a Tony Effe è stato sbagliato. Quando una decisione viene calata dall'alto quella sì, è censura. E ci perdonerà il sindaco se lo diciamo, ma usare questa parola non è fuori luogo dato che: 1) il provvedimento è stato preso da un'autorità. 2) È stato preso nei confronti di un cantante, peraltro già invitato dal Comune, il quale ha così dimostrato di aver ideato una proposta culturale senza conoscere la cifra artistica di chi ha chiamato a calcare quel palco. Ma allora Tony Effe è solo una povera vittima e i suoi testi privi di problematicità? Assolutamente no. Il problema, come in molti casi, è il ‘chi' e il ‘come': perché un conto è che artisti, ascoltatrici e ascoltatori, ma anche la stessa istituzione politica, avanzino una critica. Un altro è quando gli organi di governo di una città annullino un'esibizione.

Come è chiaro che il Comune di Roma non ne abbia messa una giusta in fila, è anche chiaro che alcune delle canzoni di Tony Effe, così come l'immaginario che evoca, non sono esenti da problematiche. Per citarne solo alcune: "Non mi piace quando parla troppo (troppo)/Le tappo la bocca e me la fott- (shh)". "Prendo una bitch, diventa principessa/Le ho messo un culo nuovo, le ho comprato una sesta". Con Gué e Villabanks: "Serve una che mi succhi il cazzo per il 14 febbraio/Un anno dopo non ho cambiato piano/Fallo forte, poi piano, poi forte, non dirmi, ‘Ti amo'/Fai capire che sei tutta porca da come lo tieni/Fai vedere che te la vuoi bere quella che ho da dare".

Chi scrive sa perfettamente che il genere musicale caratterizza le forme con cui esso si esprime, che si tratti del rap di Eminem o delle provocazioni fetish dell'industrial di Marylin Manson, per citare due esempi ben più celebri che in passato hanno subito critiche e censure negli Stati Uniti. Tuttavia, questa non può diventare una wild card che esenta da qualsiasi giudizio l'immaginario che si propone con le proprie canzoni, dei cui testi si è responsabili. Un certo modo di rappresentare e parlare delle donne non andava bene quarant'anni fa, quando la sensibilità media nei confronti delle tematiche di genere rasentava lo zero. Per non parlare dell'atteggiamento da macho che non deve chiedere mai, talmente ostentato che va oltre il ridicolo. Trincerarsi però dietro la frase ‘è solo arte, ci sono problemi più importanti di cui occuparsi' non è più sufficiente. Dimostra una povertà di contenuti e una mancanza di comprensione della questione che provoca solo sconforto. Perché sì, è benaltrismo, e lo sapete pure voi. Basta con la storia delle femministe guastafeste, e assumetevi la responsabilità di quello che cantate e dell'immaginario che evocate. Questo non vuol dire che vada impedito un concerto. Ma che fiocchino occasioni per criticarvi, questo sì.

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Giornalista dal 2013, redattrice alla cronaca di Roma di Fanpage dal 2019. Ho lavorato come freelance e copywriter per diversi anni, collaborando con vari siti, agenzie di comunicazione e riviste. Laureata in Scienze politiche all'Università la Sapienza, ho frequentato nel 2014 la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso.
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