Il termine inglese cold case significa letteralmente "caso freddo": così sono oggi designati i casi di cronaca nera archiviati senza soluzione oppure giunti ad una sentenza di condanna esecutiva. I cold case per eccellenza sono gli omicidi rimasti senza colpevole. Sono i delitti più gravi e cruenti che non sono passati attraverso una sentenza di condanna, chiusi per mancanza o insufficienza di prove. Sono delitti irrisolti. Non è quantificabile il tempo decorso il quale un caso diventa "a pista fredda". Parafrasando un recente intervento di Papa Francesco "le ferite non vanno mai in prescrizione". L'evoluzione delle tecnologie, delle strategie investigative, l'invalidazione di una prova che scagionava un indagato, sono alcuni dei requisiti che potrebbero aiutare a far luce su quanto, per anni o addirittura decenni, è rimasto nell'ombra.
Il giallo di Via Poma rientra a pieno titolo tra i cold case più controversi che la cronaca nera del nostro Paese ricordi. Tanti i punti oscuri continuano a permanere dopo 32 anni così come molteplici sono stati degli errori compiuti sulla scena del crimine. Analizziamoli insieme partendo dal momento dell'aggressione.
Ricostruzione criminodinamica
Sulla base dei documenti e delle fotografie che ho avuto modo di visionare è possibile sostenere che l’aggressione di Simonetta Cesaroni sia avvenuta alle spalle e ad opera di un destrimano. In primo luogo, se l’aggressione fosse stata frontale, sarebbero stati presenti – sia pur in maniera relativamente residua – segni di difesa. Risultati invece totalmente assenti sul corpo della ragazza. In secondo luogo, ad avvalorare l’aggressione di un destrimano, sarebbe la presenza di un colpo sull’emivolto destro di questi ultimi. Di conseguenza l’assassino, dopo aver colpito la vittima al volto, l’avrebbe spogliata e colpita mentre era distesa sul pavimento priva di sensi. Una reazione improvvisa che non ha lasciato scampo a Simonetta. Proprio perché inattesa. Ciò spiegherebbe il motivo per il quale il suo corpo è stato rinvenuto con indosso solamente il reggiseno rosa “a balconcino”, i calzini ed il top bianco appoggiato di traverso sul ventre. Della camicia, degli slip e dei fuseaux, invece, nessuna traccia. L’offender li ha portati via con sé.
Nonostante si sia trattato di un omicidio a sfondo sessuale, Simonetta non ha subito violenza carnale. Il suo assassino non è infatti riuscito a violentarla.
Il perché della mancata aggressione sessuale
Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni, pur avendola colpita nella maniera più feroce possibile, non è riuscito a consumare il rapporto sessuale. In questo tipo di aggressioni non è una circostanza anomala. Al contrario, è frequente che l’offender non raggiunga l’erezione necessaria per penetrare la vittima e quindi decida di violarla con degli oggetti in sostituzione. Nel caso di specie un’arma da taglio con superfice bitagliente, verosimilmente un taglia carte. Delle 29 coltellate, difatti, plurime hanno attinto Simonetta proprio nell’area genitale. Oltre alla ferita, forse un morso, rinvenuta all’altezza del capezzolo. Che, poi, ha costituito in primo grado la prova regina contro Raniero Busco. Ferite, dicevo, che hanno assunto per l’offender valore simbolico. Ha colpito le zone erogene che rappresentano il potere seduttivo femminile.
Il movente
Il rifiuto di Simonetta di consumare un rapporto sessuale ha scatenato nel suo carnefice una frustrazione insostenibile e che poi l’ha indotto a colpirla proprio mentre stava lasciando la stanza. Dopo averla tramortita, l’ha spogliata ed ha provato senza esito a violarla. Di qui la decisione di ucciderla incentivata dalla volontà di metterla a tacere perché avrebbe potuto denunciarlo.
Gli errori commessi in fase di sopralluogo
La scena del crimine e le attività che in essa devono essere svolte sono fondamentali per la risoluzione di un delitto. Durante il sopralluogo effettuato nell’immediatezza dell’omicidio sono stati commessi errori che hanno pregiudicato irrimediabilmente l’esito delle indagini. Innanzitutto, il mancato intervento della polizia scientifica e, quindi, la mancata repertazione delle impronte digitali. Oggi una cosa del genere non è neppure ipotizzabile giacché le impronte digitali sono il principale elemento identificativo di un soggetto. In aggiunta, il medico legale non ha rilevato né la temperatura cadaverica né quella della stanza in cui è stata ritrovata cadavere Simonetta. Un errore madornale che ha lasciato aperto l’interrogativo sull’orario esatto della morte di quest’ultima. L’orario della morte è un elemento fondamentale, se non decisivo, per stabilire la veridicità degli alibi e vincola tutti gli indiziati di un delitto. Dunque, il mancato rilevamento della temperatura cadaverica complicherà anche il nuovo filone di indagine che sembrerebbero concentrarsi proprio sulla mancanza dell’alibi del nuovo sospettato.
Le scarpe ed i calzini di Simonetta
Secondo la tesi presentata dal consulente Procura e sposata dalla Corte in primo grado per condannare Raniero Busco, le scarpe di Simonetta sarebbero state collocate dalla stessa – nell’angolo di destra della parete opposta alla porta di ingresso – , nella fase di “svestizione consenziente”, mentre si accingeva a consumare un rapporto sessuale con l’allora fidanzato. In mancanza, secondo le analisi dei consulenti, di tracce ematiche sulle scarpe.
Ipotesi questa che in primo grado sarebbe stata avvalorata dalle altre attività scientifiche condotte sui calzini indossati dalla vittima. In particolare, si legge in sentenza: “Riguardo alle scarpe è del tutto realistico ritenere che le stesse non fossero indossate dalla Cesaroni al momento dell'evento letale e che anzi la vittima si sia mossa all'interno degli uffici, senza le scarpe, come dimostrerebbero gli aloni grigiastri, dovuti al contatto con il pavimento, apprezzati nel plantare di entrambi i calzini". Nello specifico, i consulenti scrivevano: “Un paio di calzini visibilmente usati, uno dei quali presentava vistose tracce ematiche mentre l'altro solo più o meno deboli aloni scuri. Si osservavano alcune formazioni pilifere di colore nero, di lunghezza media (4-7 cm) e una più lunga (superiore ai 10 cm). Si rileva inoltre la presenza di piccoli trucioli di segatura”.
Ma la ricostruzione dei consulenti nominati nel 2004 si poneva in estrema antitesi con quanto riportato nell’atto di sopralluogo dal medico legale incaricato all’epoca dei fatti. Il professor Carella Prada, tra i primi a vedere il corpo, scriveva: “Il cadavere recava altresì calzini corti in cotone bianco il cui versante plantare appariva sostanzialmente deterso”. Vale a dire un plantare totalmente pulito.
E la versione del medico legale ha trovato piena corrispondenza con le foto scattate dalla polizia giudiziaria in attività di sopralluogo. Dalle quali emergeva la totale assenza sui calzini sia delle tracce ematiche, sia di aloni grigiastri sia di trucioli di segatura. Dov’è l’inghippo? Semplice. I consulenti dell’accusa nel processo a carico di Busco non hanno considerato che le loro attività sui calzini erano state svolte nel 2004, quattordici anni dopo l’omicidio. E, dunque, quei calzini erano stati esposti, sia pur involontariamente, ad un’attività di contaminazione dovuta alle modalità errate di conservazione dei reperti. Difatti, questi ultimi erano stati conservati tutti nella medesima busta di plastica senza l’obbligatorio sigillo anti-alterazione. Verosimilmente, quindi, Simonetta non ha camminato scalza in quella stanza.
Tornando alle scarpe, un’attenta ed ingrandita lettura del fascicolo fotografico, in particolare del reperto n.28, porta a riscontrare la presenza di probabili tracce ematiche all'interno della scarpa sinistra e sul pavimento in prossimità delle scarpe stesse. In questo senso, è possibile ipotizzare che le scarpe di Simonetta si trovassero in prossimità del corpo al momento dell'azione delittuosa. E solo successivamente sarebbero state collocate nella posizione del ritrovamento. Non è un caso se l’impianto accusatorio a carico di Raniero Busco, che prevedeva la svestizione consenziente della fidanzata (scarpe incluse) prima dell'omicidio, sia poi crollato in secondo grado ed in Cassazione.
Il “suicidio rivendicativo” di Pietrino Vanacore
Il 12 marzo del 2010, con la riapertura del processo, Pietrino Vanacore avrebbe dovuto essere chiamato a deporre come testimone. Nonostante la prevista facoltà di non rispondere, però, Vanacore ha preferito togliersi la vita in maniera plateale nella sua Taranto. Difatti, quello concretizzato dall’uomo, è quello che in gergo tecnico viene definito: suicidio rivendicativo. Un suicidio studiato in ogni suo dettaglio. Per questa ragione ha fatto in modo che il suo corpo fosse ritrovato: nessuno avrebbe dovuto pensare ad una fuga. Dunque, si è tolto la vita legandosi una lunga fune ad un piede e assicurando l’altra estremità ad un albero sulla scogliera. Dopo aver ingerito dell’anticrittogamico che aveva sciolto in una bottiglietta, Vanacore si è abbandonato alle onde fredde del mare pugliese. Annegando per sempre ogni riferimento a quel 7 agosto di 32 anni fa. Ed infatti nella sua auto è stato rinvenuto un biglietto di addio recante le seguenti parole: vent’anni di martirio e sofferenza senza colpa portano al suicidio. Che cosa ha portato l’ex portiere a togliersi la vita? Il timore di entrare nel processo come imputato o la paura che il suo volto fosse ancora sovrapposto a quello di un colpevole a vario titolo? Forse non lo sapremo mai.
Le nuove indagini
Il nuovo filone di inchiesta, che ha visto l’apertura di un fascicolo per omicidio volontario a carico di ignoti, vedrebbe ad oggi un nuovo sospettato. Quest’ultimo, secondo indiscrezioni, sarebbe entrato infatti nel mirino dei Pm di Piazzale Clodio perché il suo alibi non reggerebbe. Un elemento che, considerato da solo, non sarebbe sufficiente a costruire un solido impianto accusatorio. In soldoni, realisticamente parlando è impresa assai complicata, per non dire impossibile, la verifica dell’alibi di un nuovo sospettato a trentadue anni dall’omicidio. Tenendo anche presente la mancata rilevazione della temperatura cadaverica.Senza considerare l’elevato rischio, connesso al decorso del tempo, di esporre nuovamente alla gogna mediatica il nome di chi colpevole non è. Ed infatti non possiamo dimenticare il macroscopico errore giudiziario che ha visto la condanna in primo grado di Raniero Busco, il fidanzato dell’epoca di Simonetta Cesaroni.