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Perché l’assistenza domiciliare ai malati Covid nel Lazio è stata un disastro

La scelta di non creare le Usca, gli alti livelli di ospedalizzazione e i ritardi nell’assistenza domiciliare mostrano come il vero punto debole nella gestione dell’emergenza Covid nel Lazio è stata la medicina territoriale. È l’effetto di anni di ridimensionamento della sanità pubblica e di centralizzazione attorno a pochi grandi ospedali dei servizi. Ma la pandemia può essere l’occasione come per le Rsa di cambiare direzione.
A cura di Valerio Renzi
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Il decreto del 9 marzo 2020, proprio quando si cominciano a prendere le misure più drastiche per contrastare la prima ondata di epidemia di coronavirus, prevede l'organizzazione delle Usca, ovvero le Unità speciali di continuità assistenziali che entro il successivo 20 marzo sarebbero dovute essere operative in tutte le Regioni italiane e le province autonome. Nella strategia disegnata a livello nazionale le Usca ricoprono un ruolo fondamentale, dovendo assistere i pazienti a domicilio evitando così di riempire i reparti Covid degli ospedali e intasare i pronto soccorso, sostenendo l'azione dei medici di base agendo con formazione, strumentazione e dispositivi di sicurezza adeguati.

Proprio le Usca rappresentano il punto debole nella gestione dell'emergenza nella Regione Lazio, che ha preferito attivare invece le Uscar, Unità Speciali di Continuità Assistenziale Regionale, con compiti simili ma gestite direttamente e in maniera centrale dall'ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma, puntando al contempo alla mobilitazione dei medici di base per il monitoraggio dei pazienti a domicilio. Una scelta molto contestata dalle organizzazioni di categoria dei medici di famiglia, che hanno fatto ricorso al Tar in merito all'indirizzo regionale, ma difesa a spada tratta dall'assessorato alla Sanità della Regione Lazio. L'assessore Alessio D'Amato a una domanda diretta di Fanpage.it ha risposto sottolineando il ruolo e il dovere dei medici di medicina generale di andare a casa dei pazienti. "Il primo elemento dell'assistenza domiciliare non è legato alle Usca ma è legato ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta. – ha spiegato D'Amato – Un esercito di 4500 medici che, ovviamente dovutamente formati e informati, lì dove necessario devono recarsi a domicilio io questo ci tengo a dirlo perché quando si ha una dimensione così rilevante – 800.000 a livello nazionale e 80.000 nel Lazio – detto questo nel Lazio ne sono state costituite 200 a fronte delle 112 previste dal decreto livello nazionale".

Ma anche dove le Usca sono state attivate, la situazione non è delle più rosee. Lo scorso 23 novembre la Corte dei Conti ha presentato un rapporto in cui veniva sottolineato come a ottobre solo il 50% delle Usca era stato attivato come media a livello nazionale. "L’attivazione delle Unità speciali di continuità assistenziale, che ben avrebbero potuto rappresentare uno strumento di assistenza sul territorio anche in grado di alleviare la pressione sugli ospedali, ha avuto un andamento inferiore alle attese e con forti differenze territoriali", sottolinea la magistratura contabile.

Certo è che il caso del Lazio rappresenta un unicum a livello nazione, tanto che i medici di base hanno ricorso al Tar che ha dato torto all'amministrazione di Nicola Zingaretti. Ma il punto è che Usca o Uscar, quello che sembra ancora mancare nel Lazio è una rete efficace di cura territoriale e di presa in carico dei pazienti Covid positivi a domicilio. E proprio questa potrebbe essere la ragione di tassi di ospedalizzazione così alti nel Lazio rispetto ad altre regioni. Ma le difficoltà nelle attivazioni delle Usca rispondono anche a un dato strutturale che, nella gestione dell'emergenza, ha pesato sulle scelte adottate: la debolezza della medicina territoriale nel Lazio dove, negli ultimi anni, la rete sanitaria pubblica si è strutturata attorno a pochi grandi poli ospedalieri. Secondo il decreto istitutivo le Usca sarebbero dovute nascere nella sede della continuità assistenziale che già dovrebbe esistere, una almeno ogni 50mila abitanti. La conseguenza di questa mancanza è una maggiore lentezza nel raggiungere i pazienti a casa – per mesi in molti casi abbandonati a loro stessi – la difficoltà dei medici di base di agire senza un sostegno adeguato e un peso a volte superflue sulle strutture ospedaliere già cariche di lavoro e stress.

Le regioni dove le Usca hanno funzionato meglio, sono quelle dove già esisteva una medicina territoriale da riconvertire nella gestione dell'emergenza, come ad esempio in Emilia Romagna dove non a casa i livelli di ospedalizzazione sono bassissimi. E se la tenuta complessiva del sistema sanitario nel Lazio di fronte all'epidemia può sembrare un esempio rispetto a quanto accaduto altrove, la vicenda della mancata costituzione delle Usca sottolinea le debolezze di una rete sanitaria centralizzata, dove la riforma dell'assistenza primaria (la così detta Legge Balduzzi) ormai del 2012 è più indietro che altrove e dove i presidi territoriali sono appannaggio soprattutto dei privati. Come sulle Rsa la Regione Lazio sta pensando a un maggior ruolo del pubblico e a cambiare decisamente direzione dopo quanto accaduto durante la pandemia, la stessa cosa dovrebbe valere per la medicina di prossimità.

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