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Aggiornamenti sul caso Emanuela Orlandi

Perché la scomparsa di Emanuela Orlandi è ancora uno dei più noti cold case dopo 40 anni

La scomparsa di Emanuela Orlandi è un cold case che dura da oltre quarant’anni. Ma quali sono le certezze che abbiamo fino ad oggi sul caso?
A cura di Anna Vagli
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La scomparsa di Emanuela Orlandi è uno dei principali cold case italiani. Ma che cos’è un cold case? Il termine inglese cold case significa letteralmente "caso freddo". Così sono oggi designati i casi di cronaca nera archiviati senza soluzione.

I cold case per eccellenza sono gli omicidi rimasti senza colpevole. Sono i delitti più gravi e cruenti che non sono passati attraverso una sentenza di condanna, chiusi per mancanza o insufficienza di prove. Sono delitti irrisolti.

Non è quantificabile il tempo decorso il quale un caso diventa "a pista fredda". Parafrasando un intervento di qualche anno fa proprio di Papa Francesco, "le ferite non vanno mai in prescrizione". L'evoluzione delle tecnologie, delle strategie investigative, l'invalidazione di una prova che scagionava un indagato, sono alcuni dei requisiti che potrebbero aiutare a far luce su quanto, per anni o addirittura decenni, è rimasto nell'ombra.

Dunque, è possibile far luce sul rapimento Orlandi? Partiamo dal fondo. E facciamolo constatando come sollevi anzitutto i fantasmi del dubbio la circostanza per la quale la magistratura vaticana abbia aperto l’inchiesta sul caso dopo qualche giorno dalla morte di Papa Ratzinger. L’iniziativa, verosimilmente avvenuta dietro la spinta di Papa Francesco, non sembrerebbe essere una coincidenza. Le coincidenze nelle indagini, e in generale nel panorama criminale, non esistono. Prima regola che ho imparato sul campo.

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Pertanto, ripercorriamo quelli che, almeno fino ad oggi, appaiono i punti nodali relativamente alla scomparsa di Emanuela Orlandi.

Il sequestro di Emanuela Orlandi fu premeditato

Se una cosa è certa è che quello di Emanuela non è stato un allontanamento volontario da casa. Emanuela, figlia del messo pontificio Ercole, è stata sequestrata con l’inganno.

Ciò che in pochi sanno, invece, è che la ragazza non fu la prima scelta dei suoi rapitori. Altre due sue amiche, sempre cittadine vaticane, furono attenzionate, pedinate e poi scartate. Si trattava delle figlie dell’aiutante da camera di Woityla, Angelo Gugel e del capo della Gendarmeria, Camillo Cibin. Questo è quanto si legge nei due verbali di interrogatorio dell’Arma, datati 11 e 24 luglio 1984.  In particolare, Raffaella Gugel riferisce di essere stata seguita per settimane sui mezzi pubblici e per strada da un uomo sui trent’anni di pelle scura e straniero. Probabilmente, aveva supposto Raffaella, si trattava di un soggetto di nazionalità turca.

In effetti, proprio in questa circostanza, molti fondano la pista internazionale. Due anni prima, infatti, il 13 luglio 1981, Ali Agca aveva attentato alla vita di Papa Woytila.

Il perché è (forse) di agile comprensione. Nonostante la condanna all’ergastolo dell’attentatore, i suoi legali non fecero ricorso in appello. Un’inerzia che pone non pochi interrogativi. Agca aveva ottenuto una qualche rassicurazione? Se sì, da chi? Sembra circostanza acclarata che, nei mesi precedenti, l’uomo avesse ricevuto la visita in carcere di due esponenti dei servizi segreti.

La cittadinanza di Emanuela

Emanuela Orlandi aveva ottenuto la cittadinanza vaticana solamente tre mesi prima di scomparire. Anche questa solamente una coincidenza? O qualcuno stava accuratamente pianificandone il rapimento?

Il ruolo del Sisde

Decorse solamente quarantotto ore dalla scomparsa, a casa Orlandi si presentarono due agenti segreti del Sisde. Nello specifico, Giulio Gangi e Gianfranco Gramendola. Questi ultimi fecero pressione sulla famiglia Orlandi affinché i suoi membri nominassero come legale Gennaro Egidio, un avvocato vicino proprio ai servizi segreti.

La “svista” di Papa Woytila 

Giovanni Paolo II, durante l’Angelus del 3 luglio 1983, appena undici giorni dopo la scomparsa, pronunciò pubblicamente nome e cognome di Emanuela Orlandi. E lo fece condividendo le ansie dei familiari e facendo appello al senso di umanità dei responsabili. Ma vi è di più. In un lapsus quasi freudiano, ai più passato inosservato, il pontefice parlò chiaramente di rapimento e non di semplice scomparsa. Nessuno fino a quel momento aveva però ventilato un simile scenario.

Mette conto un inciso. C’è una regola non scritta che, però, è tenuta in ampia considerazione dai profiler. Quest’ultima afferma che, un assassino (e in generale i criminali), commette – nella fase contestuale e successiva al delitto – mediamente venti errori. E li commette per imprudenza o imperizia.

Non voglio dire che Giovanni Paolo fosse coinvolto direttamente nella scomparsa di Emanuela, ma quello è stato probabilmente uno dei venti errori. Che cosa sapeva Wojtyla?

Il numero 158

Sempre con riferimento alle sfere vaticane, non si comprende come mai ai rapitori fosse stato dato un codice riservato per parlare direttamente con il Segretario di Stato Casaroli. Il codice, nello specifico, era il 158. Il 158 è un messaggio cifrato? Del resto, 5-81 è l’anagramma del mese e dell’anno dell’attentato in danno di Papa Giovanni Paolo II.

Volendo postulare la totale estraneità della Chiesa, è un passaggio anomalo e soprattutto che non trova giustificazione alternativa al diretto coinvolgimento dei piani alti vaticani nel rapimento Orlandi. Del resto, non è lontanamente ipotizzabile che il Segretario di Stato Vaticano interagisca telefonicamente con chiunque.

Riavvolgiamo il nastro. Come venne adescata Emanuela Orlandi?

Emanuela Orlandi venne avvicinata da un operatore che le offrì 375 mila lire per distribuire volantini dell’azienda di cosmesi Avon ad una sfilata delle Sorelle Fontana. I termini di questa offerta furono riferiti alla ragazza durante la sua ultima chiamata a casa. Un messaggio in codice? La sede delle Sorelle Fontana si trovava presso Piazza di Spagna. Il riferimento alla loro sfilata potrebbe essere stato fatto per richiamare Monsignor Pierluigi Celata, uomo di Casaroli. Ciò giustificherebbe il rilascio del numero di quest’ultimo per trattare con i rapitori. L’uomo, infatti, al tempo era direttore dell’Istituto San Giuseppe De Merode, ubicato proprio nella stessa piazza.

Quale ruolo per lo IOR?

Il sequestro di Emanuela potrebbe aver giovato anche sul fronte economico. A quel tempo i fondi vaticani erano gestiti dal presidente dello Ior, Marcinukus.

Parte dei fondi in parola erano stati spediti in Polonia a sostegno del sindacato Solidarnosc. Per alcuni il piano era finalizzato ad ottenere due risultati. Il primo era dato dalle dimissioni proprio del Presidente dell’Istituto per le Opere di Religione, già fortemente indebolito per la faccenda del crack Ambrosiano. Il secondo obiettivo, invece, era il recupero dei soldi, non sempre puliti, del Vaticano.

Due elementi potrebbero avvalorare la seguente tesi. Il primo è l’uso in codice di “Avon”, anagramma di Nova, fondazione pontificia, istituita nel 1960 e che oggi porta il nome di Fondazione Nova Internazionale Spes.

Il secondo: il rinvio al “5-1984” contenuto in un comunicato inviato da Boston e nel quale si faceva riferimento al sequestro di altre ragazze. Un documento che, secondo Accetti, sarebbe stato inserito per dettare a controparte i tempi dell’Intesa Italia-Santa Sede sul dissesto dell’Ambrosiano. Non è un caso che la transazione da 250 miliardi di lire verrà definita nel maggio del 1984 a Ginevra.

L’Amerikano

Dal 5 luglio 1983 fu solo una persona a gestire la comunicazione con la famiglia Orlandi e gli organi di stampa. Un uomo ribattezzato dai media come l’Amerikano per via del suo particolare accento. Lo stesso che telefonò al cardinale Casaroli e la cui voce somigliava a quella di Marco Accetti. Tuttavia, a partire dal 4 agosto 1983 si registrò un nuovo cambio di rotta. A decorrere da quella data i comunicati iniziarono ad essere firmati dal “Fronte Turkesh”. Il fronte, nel “Komunicato n.3”, rivelò un dettaglio sino ad allora non reso pubblico. E cioè che Emanuela, due sere prima di sparire, si era recata a cena di parenti. Ma di quella cena ne erano a conoscenza solo i familiari.

Un boss in una cripta nel cuore di Roma

Era luglio del 2005 quando la trasmissione Chi l’ha visto? ricevette una telefonata. “Riguardo al fatto di Emanuele Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare e del favore che Renatino fece il cardinal Poletti. E chiedete al barista di Montebello’”.

La persona non si identificò né venne identificata, ma certamente era informata sui fatti. A mio avviso quella telefonata è una pietra miliare nella ricerca della verità. Andiamo per gradi. Nel 1990 era stato il vicario di Roma, Ugo Poletti, ad autorizzare la sepoltura di De Pedis nella basilica. Da quella telefonata, però, passarono sette anni prima che il boss venisse disseppellito. Era il 2012. Tecnicamente, quindi, i poteri ecclesiastici ebbero tutto il tempo per pianificare la gestione della faccenda.

Nel mentre la Procura di Roma, aprendo un’inchiesta bis sul rapimento Orlandi, aveva iscritto nel registro degli indagati Sabrina Minardi, ex amante di Renatino, tre membri della banda, Marco Accetti e don Vergari, il rettore della basilica Sant’Apollinare.

Il ruolo della banda della Magliana

Il Procuratore aggiunto Capaldo, che nei quattro anni successivi alla scomparsa indagò sul caso, attribuì un ruolo centrale alla banda della Magliana nella gestione del rapimento di Emanuela Orlandi.

Capaldo fondò tale ricostruzione sulla dichiarazione di una super testimone. Vale a dire Sabrina Minardi, ex amante di Renatino, da anni fruitrice abituale di cocaina e anche per questo valutata poco attendibile. In effetti, Minardi indicò come rifugio di Emanuela un luogo preciso: via Pignatelli, a Monteverde Nuovo, dove la polizia poi troverà un cunicolo abitato.

Di fatto tracce di DNA di Emanuela nel luogo non sono state rinvenute. In questo senso, è possibile che Minardi abbia arricchito la narrazione per essere ritenuta credibile e per avere i riflettori maggiormente puntati. Dal mio punto di vista, però, in quelle dichiarazioni c’è un fondo di verità. Magari l’ex amante del boss non sa effettivamente come e dove sia stata tenuta nascosta Emanuela, ma è a conoscenza dell’intervento di Renatino.

La consegna del flauto

Fra i personaggi più controversi della vicenda c’è indubbiamente Marco Accetti. L’uomo che, il 27 marzo 2013, consegnò il flauto di Emanuela ai familiari. Oltre che ad un lungo memoriale in cui si è accusato del duplice rapimento di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi. Verificatisi rispettivamente il 7 maggio ed il 22 giugno 1983.

Del tutto assente nel documento di autoaccusa è una confessione su chi fossero i mandanti dell’azione. Il fotografo ha più volte parlato sia di tonache non in linea con la visione di Papa Wojtyla sia di agenti dei servizi segreti dell’Est. Ma non ha mai espressamente fatto nomi.

 L’audio shock diffuso da Alessandro Ambrosini

In una registrazione del 2009, un ex socio di Enrico De Pedis rivolge accuse pesantissime contro il Vaticano. L'autore di queste affermazioni resta al momento riservato, ma l’uomo potrebbe essere presto chiamato a dare conto di quanto ha detto. L’audio è stato cristallizzato da Alessandro Ambrosini, fondatore del blog Notte Criminale, ed ha come protagonista un uomo vicino proprio a Renatino, boss della banda della Magliana. Dunque, mettendo insieme tutti i tasselli negli anni, sembra prossima alla certezza la circostanza per la quale Enrico De Pedis abbia avuto qualche ruolo nel rapimento di Emanuela Orlandi.

"[…] pure insieme se le portava a letto, non so dove se le portava, all’interno del Vaticano. Quando è diventata una cosa che ormai era diventata una schifezza, il segretario di Stato ha deciso di intervenire. Ma non dicendo a Wojtyla ora le tolgo da mezzo. Non hanno fatto altro che chiamare De Pedis e gli hanno detto: sta succedendo questo, ci puoi dare una mano?".

La registrazione è avvenuta all'insaputa dell'interlocutore. Ma proprio questo fatto potrebbe fondare la veridicità di quelle parole. Che, con le dovute cautele, potrebbero assumere valore di confessione. Difatti, in quell'occasione l’ex sodale di Renatino aveva percepito la necessità di fare alcune precisazioni in ordine alle affermazioni rese da Sabrina Minardi ai magistrati romani.

Un'intercettazione shock. Che, laddove trovasse conferma, grazie anche all’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta fortemente voluta da Pietro, fratello di Emanuela, aprirebbe scenari forse ancora oggi proibitivi per il Vaticano. Troppo, forse, per far luce sulla “vera” verità.

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Dottoressa Anna Vagli, giurista, criminologa forense, giornalista- pubblicista, esperta in psicologia investigativa, sopralluogo tecnico sulla scena del crimine e criminal profiling. Certificata come esperta in neuroscienze applicate presso l’Harvard University. Direttore scientifico master in criminologia in partnership con Studio Cataldi e Formazione Giuridica
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