Nella giornata di ieri un nuovo killer ha tenuto sotto scacco la Capitale. Nella borgata Fidene, in zona Nord-Est della Capitale, Claudio Campiti, 57 anni, ha sparato all’impazzata nel gazebo esterno di un bar. Il motivo, almeno apparente, una lite condominiale. Tre le vittime, tutte donne, mentre una quarta è ricoverata in condizioni gravissime all’ospedale Sant’Andrea. Un quinto uomo, invece, è stato colto da malore durante la sparatoria e anch’egli risulta ricoverato al Pertini in stato di shock.
Una tragedia preventivabile, uno storico clinico dell’uomo compromesso e aggressioni verbali che non hanno avuto seguito. Quanto ci vorrà affinché il sistema comprenda che determinate situazioni psicologiche sono irreversibili e che, di conseguenza, in certi scenari le parole non sono solo parole?
Che cosa è scattato nella mente del killer?
Claudio Campiti ha agito in preda ad uno stato di deriva psicologica. Poteva uccidere più persone se la sua furia omicida non fosse stata arrestata. Ma la falla nel sistema è evidente. La strage era ampiamente evitabile. E non si tratta affatto della solita retorica.
In primo luogo, l’uomo si è allontanato dal poligono di tiro di Tor di Quinto con un’arma, una Glock calibro 9, e 170 proiettili. Senza che nessuno lo fermasse. E proprio con quella pistola, dopo soli trenta minuti, ha ucciso tre persone. Paradossale. Nel marzo del 2020 i Carabinieri gli avevano negato la possibilità di ricevere il porto d’armi in forza di alcuni contenziosi tra Campiti e i soci del consorzio. Ma l’uomo risultava regolarmente iscritto al circolo ed era in possesso di un certificato di idoneità psico fisica. Un attestato sul quale, chiaramente, indagano i carabinieri.
La strage di Fidene vanta una criminogenesi ben definita. Stando a quanto emerge, Campiti aveva già minacciato di sparare lo scorso anno e vantava uno storico di denunce perché non pagava le quote del consorzio Valle Verde a Rocca Sinibalda, in provincia di Rieti. Oltre ad aver mostrato precarietà in termini psichici dopo la morte del figlio minorenne in un incidente sulla neve. Romano Campiti, questo il nome del ragazzo, aveva 14 anni e nel 2012 si era schiantato contro un albero con lo slittino in Val Pusteria. Disagi verso l’esterno di cui più volte aveva lasciato traccia indelebile. Rigorosamente prima dei fatti di ieri.
Il fattore scatenante è stato l’odio, un odio che non si è risparmiato dimostrare nel blog dal titolo “Benvenuti all’Inferno” che gestiva. E nel quale definiva i vertici del consorzio del quale faceva parte come un’associazione mafiosa.
Un profondo carico negativo, un rancore nutrito, però, ancor prima che verso gli altri, verso sé stesso. Un sentimento che ha a che fare con la percezione della perdita della propria importanza.
Un odio sconfinato che ha avuto origine non solo nel lutto, ma anche in tutta una serie di fallimenti personali la cui portata è stata clinicamente amplificata.
Ad avvalorare la ricostruzione psicologica, intervengono anche i fondamenti neuroscientifici. Fondamenti che puntano i riflettori sulla corteccia motoria, la zona del cervello che è coinvolta – dietro il comando della volontà – nella pianificazione, nel controllo e nell’esecuzione dei movimenti volontari del corpo.
In termini ancor più semplicistici, la corteccia motoria è la regione che viene attivata quando una persona prova un senso di aggressività. E proprio quella corteccia è diventata il grilletto emotivo che ha spinto il killer all’azione. E lo ha indotto altresì ad organizzare la fuga, scomodando l’aggravante della premeditazione. Campiti, oltre ai 170 proiettili, aveva con sé anche un passaporto, uno zaino, vestiti e sei mila euro in contanti.