Sapete cos’è un facepalm? Probabile di sì, ma se no: nel linguaggio gergale di chi ha frequentato la rete negli ultimi dieci anni, il facepalm è il tipo di affermazione, evento o incidente che porta le persone a coprirsi il volto con una o più mani, in segno di imbarazzo, sgomento, disperazione o tutte queste cose insieme. È l’estrinsecazione del termine tedesco Frendschämen, vergogna conto terzi. L’ultima settimana ci ha portato parecchi facepalm, ma uno in particolare mi ha colpito (forte, in faccia), perché coinvolge una parte della mia identità politica.
Sto parlando della polemica su Tony Effe al Capodanno di Roma, che riassumo così: all’annuncio della partecipazione del suddetto alla festa di Capodanno della Capitale è seguita una levata di scudi. Perché Tony Effe avrebbe cantato delle canzoni sessiste (non è chiaro quando, se in tempi recenti o quando era poco più che maggiorenne e militava nella Dark Polo Gang), quindi non può essere pagato con soldi pubblici. In prima linea nelle proteste ci sono molte donne attive nel contrasto alla violenza maschile.
Poteva finire qua, con una lettera di sdegno, invece no: la pressione è montata e mentre scrivo pare che siamo arrivati alla richiesta fatta a Tony Effe di ritirarsi, e la notizia è già che “le femministe” chiedono la rimozione di un artista dalla line-up di un evento. E io (per usare un eufemismo) sono femminista e non sono d’accordo, per i motivi che proverò a sintetizzare qui per punti.
1# L’arte deve essere libera da ogni considerazione morale. Partiamo da un presupposto che non sembra essere chiaro: la musica è arte. Ci può piacere o non piacere, ma è l’espressione creativa dell’animo umano, con tutti i suoi limiti e le sue perversioni (vedi a proposito: Fritz the Cat, di R. Crumb, anche nella versione animata di Ralph Bakshi: un classico degli anni ’70 che esprime una misoginia violenta, riconosciuta anche dal suo stesso creatore).
Dal mio personale punto di vista, l’arte di Tony Effe è spesso povera e poco comunicativa, un riflesso di maschilità insicura che vuole raccontarsi come dominante: l’io narrante di molti trapper, soprattutto in età giovanile, è sempre quello del macho che se le fa tutte, che regna sulle donne e le disprezza. Ma è arte, e il principio per cui l’arte deve essere del tutto libera (anche di fare schifo, di essere noiosa, ripetitiva, poco originale: e di essere giudicata su questo piano) dovrebbe essere insindacabile. Se poi vogliamo aprire un discorso serio su cosa ci dicono i testi dei rapper rispetto alla maschilità fragile degli uomini e dei ragazzi, facciamolo. Ma non lo stiamo davvero facendo. Stiamo oscurando il problema perché non abbiamo gli strumenti per affrontarlo. La censura di Tony Effe (perché se arriva dalle istituzioni, quello è: censura) è una resa. Si alza bandiera bianca di fronte alla lettura di un significante (i testi) perché non si sa affrontare il significato (il bisogno di dominanza che forma il nucleo centrale dell’identità maschile).
2 # La censura è la risposta sbagliata. Non mi vengono in mente esempi di censura giusta, intendiamoci, ma avrei capito la rimozione dell’artista se su di lui pendessero accuse di violenza domestica, o addirittura una condanna, com’è accaduto di recente con Leonardo Caffo a Più Libri Più Liberi (altro grande facepalm su cui non possiamo dilungarci). Quando a settembre 2020 la Fondazione Pinault decise di rimuovere l’opera di Saul Fletcher Untitled 2020 da una rassegna in corso alla Punta della Dogana, a Venezia, lo fece perché Fletcher aveva ucciso la compagna, la curatrice e storica dell’arte Rebeccah Blum, per poi suicidarsi. La rimozione di Fletcher rappresentava in sé una forma di gesto artistico significativo: tu hai tolto una donna dalla vita e dallo spazio condiviso, noi ti togliamo dallo spazio condiviso per segnalare il vuoto che hai creato. Discutibile (e discusso), ma non censorio tout court. Fletcher aveva ucciso una donna pochi mesi prima: la ferita era fresca, e il simbolico è importante.
3 # La censura degli artisti aiuta gli artisti a trovare visibilità. Perdonatemil’autocitazione, ma esistono i precedenti, e non serve andare troppo indietro: la pietra dello scandalo, nel 2020, fu la partecipazione di Junior Cally al Festival di Sanremo. Se ne fece qualcosa? No, andò in gara normalmente, sono passati quattro anni e la violenza contro le donne (nei testi e fuori) è sempre quella. Le richieste di censura sono partite anche l’anno scorso con Emis Killa al Capodanno di Ciampino (con conseguente ritiro dell’artista) o Emis Killa quest’anno a Sanremo (in cui c’è anche Tony Effe, ma forse non se n’erano accorte). Dici: che vuoi che sia, mica fa danno levare un posto a un trapper. E invece no, i danni li fa, soprattutto alla causa che si vuole sostenere: perché gli attacchi agli artisti amati dai giovanissimi anche per la loro violenza aiutano gli artisti. In che senso “aiutano gli artisti”? Quando nell’ormai lontanissimo 1985 Mary Elizabeth “Tipper” Gore, moglie dell’allora vicepresidente degli USA Al Gore, sentì per caso Darling Nikki di Prince, si scandalizzò per i contenuti erotici del testo e mise in piedi il Parents Music Resource Center che portò all’affissione del celebre adesivo “Parental Consent: Explicit Lyrics” sulle copertine degli album, quell’iniziativa aiutò solo gli adolescenti a identificare con più facilità gli artisti e i dischi da ascoltare.
Perché l’adolescenza si forgia anche e soprattutto sulla sfida, e cosa c’è di più agevole che definirsi “contro” che ascoltare musica che fa schifo ai tuoi genitori? Cosa c’è di più – ingannevolmente, siamo tutti d’accordo – sicuro che definirsi “contro” rispetto a una posizione morale accettata e diffusa? Nessuno può dire che picchiare e umiliare le donne sia normale, o meglio: può dirlo, ma verrà sommerso dalle critiche, allontanato dal consesso civile. L’adolescente, anche per questo, lo dice. E si rifugia dietro le canzoni per sublimare la sua necessità di sentirsi fico e un po’ fuorilegge.
Cambiare l’adolescenza, che deve essere oppositiva, non si può. Agire sui meccanismi di definizione della maschilità, quello sì, si può fare.
4# Il braghettonismo (musicale e non) fa solo danni. Quando a Daniele da Volterra fu commissionato il compito di coprire le nudità dei soggetti ritratti nella Cappella Sistina con panni svolazzanti, allo scopo di salvarli dalla censura, forse non pensava che sarebbe passato alla storia come “Il Braghettone”. I femminismi hanno già abbastanza problemi ad affermarsi nella coscienza pubblica come forza propositiva e non censoria senza queste uscite, che in virtù della loro forza e visibilità finiscono per dare dei movimenti femministi un’idea arida, priva di gioia e orientata alla repressione della libera espressione, oltre che di una totale disconnessione dal reale. L’impressione che se ne ricava è di un esercito di signore braghettone che un giorno si svegliano, scoprono la trap e decidono (in maniera del tutto arbitraria) di eliminare i trapper dallo spazio pubblico. L’ultima cosa che ci si può permettere, come femministe, è di sembrare delle anziane moraliste più preoccupate di apparire virtuose che di combattere un fenomeno dalle sue radici.
Il braghettonismo non è educativo: è paternalista. Rispecchia in tutto e per tutto la risposta dei conservatori a ogni cosa: scelgo io, dall’alto di un’autoconferita autorità morale, cos’è meglio per te. Lo faccio al posto tuo perché tu non sei in grado di capirlo e di autodeterminarti. Scelgo io, e ti impongo la mia scelta con la forza, perché io sono il Bene e tu stai scegliendo il Male. Ha mai funzionato? No. Mai.
#5 L’educazione dei giovani uomini è (soprattutto) una responsabilità degli altri uomini. Se i ragazzi fanno sfoggio di prepotenza, se trovano conforto nell’autorappresentarsi come dominanti, è perché quell’autorappresentazione restituisce qualcosa in termini di prestigio sociale anche e soprattutto rispetto agli altri uomini. Allora: se proprio vogliamo fare qualcosa di serio, mettiamo gli uomini di fronte alle loro responsabilità educative e auto-educative. E lasciamo che Sesso e samba risuoni lieta al Circo Massimo, perché la vita è breve e ballare, in questi tempi cupi, è l’unica cosa davvero affidabile.