La manifestazione due giorni fa a Latina è stata importante e bella.
È stata importante e bella perché c'è stata una risposta immediata e netta di una comunità democratica, istituzionale, civile, sindacale, che pensa che il caporalato sia, com’è, una merda. È stato urlato più volte dal palco, "Mai più caporalato", si è giustamente ricordato che la legge Bossi-Fini produce questo fenomeno e che andrebbe eliminata. La risposta è stata un'ondata di indignazione, umana, sincera, rispetto alla morte atroce di Satnam Singh. La vedova è ancora sotto shock, c’è intorno a lei un cordone di solidarietà per fortuna consistente.
Ma questa manifestazione ha mostrato anche alcuni limiti.
Il più evidente è che domani, martedì, ce ne sarà un'altra. Sabato in piazza c'erano Cgil, Pd, Avs, addirittura una bandiera di Azione, una folta presenza della comunità sikh, tante persone qualunque. Domani ci sarà la comunità indiana locale che ha promosso un corteo a cui hanno aderito Cisl, Uil, Usb, la Lega, e a cui la sindaca, di Fratelli d'Italia – che è stata fischiata – ha dato il patrocinio.
Lo sciopero di due ore è evidentemente la massima prova di forza consentito nei confronti dei padroni locali. E questo dopo anni di intervento sindacale e organizzazione, che hanno rinnovato anche il gruppo dirigente locale della Cgil. Non a caso oggi la segretaria della Flai Cgil qui è Hardeep Kaur, una donna di origine indiana che qui è nata e cresciuta.
Nel 2016 piazza della Libertà accoglieva 3mila sikh per la prima volta in sciopero insieme, e quel momento sembra un inizio di una stagione di lotta, oggi quel momento è ricordato come una specie di mito fondativo che non ha avuto la forza propulsiva che si sperava, complice anche una pandemia e un postpandemia che hanno allentato e logorato le possibili solidarietà tra lavoratori, permettendo ai padroni una rivincita di classe, che spesso ha la forma di un’impunità da schiavisti. E si sa, le ondate di conflitto sindacale vanno a fisarmonica assieme alla crisi e alle capacità di ricatto dei caporali; questo non è il momento migliore per il sindacato che già da questa settimana tornerà a testa bassa con il sindacato di strada, nei campi, una iniziativa che era già in programma prima della morte del bracciante.
Questi esempi di limiti della manifestazione di oggi sono quelli più importanti nella sinistra italiana degli ultimi anni: si tratta essenzialmente di manifestare reazioni morali a problemi politici sistemici. Dire "no al caporalato" o "no al fascismo" o "no ai femminicidi", senza riconoscere gli elementi sistemici di fenomeni che hanno un radicamento riduce giustissime istanze a dichiarazioni d’intenti. Gli interventi del sociologo Marco Omizzolo danni impegnato sul terreno e Fabio Ciconte, presidente dell'associazione Terra oggi l'hanno evidenziato più di altri.
O si trattano i fenomeni da combattere, come il caporalato, quali fenomeni sistemici, oppure non si capisce come si può trasformare la cultura e le condizioni sociali e economiche che li generano. La società del caporalato, la cultura del caporalato, l’economia del caporalato, se non vogliamo parlare – e non per iperbole – di schiavitù, quella dei campi da Via col Vento, che è la definizione più corrispondente di quello che accade in molti campi nell’agro pontino.
Facciamo una fatica tremenda a garantire una svolta nella conquista di diritti essenziali. La legge 199 non riesce a essere efficace, il decreto flussi di fatto danneggia più che aiuta i migranti, la forza sindacale sembra essersi indebolita, la filiera imprenditoriale è difficile da ricostruire per stabilire colpe e responsabilità. Il risultato è l'effetto di un annullamento totale di salari e tutele: 3 euro l'ora, 14 ore al giorno, doping forzato, morti sul lavoro spesso nascoste…
Alessandro Leogrande più di dieci anni fa raccontava, come al solito tra i primi, le condizioni di sfruttamento della comunità sikh, minoranza povera in India, massa anonima di lavoratori in Italia. Il fatto che persino quella cifra, 3 euro l’ora, sia rimasta la stessa, è la prova che la denuncia dello schiavismo non è sufficiente. Non indigna abbastanza, ci sono generazioni di padroni che una dopo l’altra ritengono tollerabile, giusto, utile, uno sfruttamento disumano di braccianti semplicemente perché sono neri, stranieri, o semplicemente perché si è sempre fatto così.
Proviamo allora a elencare alcune questioni di sistema che sembrano fare di Latina e della provincia l’esempio più chiaro di quello che potremmo definire non soltanto un sistema endemico di caporalato o di schiavismo ma di neofascismo agrario.
Ci sono elementi di deregolamentazione selvaggia del sistema delle tutele simili a quelli che denunciava Matteotti o i sindacalisti negli anni venti ma del secolo scorso. Il neoliberismo da queste parti ha questa faccia da grugno mussoliniano. La provincia di Latina ha tra le più basse attivazioni di contratti a tempo indeterminato e tra le più alte di quelle stagionali. Di fatto l’economia pontina si comporta come un’immensa azienda stagionale. Il contratto viene sostituito dal cottimo e dal ricatto.
Nel frattempo i canoni di locazione sono aumentati del 18 per cento. Gli affitti, spesso in nero, portano un flusso di soldi costante a chi ha rendite immobiliari. Ci sono sempre braccianti da accatastare in qualche baracca per mesi.
Il declino economico della provincia di Latina sembra non avere un progetto di contrasto: in questa zona c’è stato un momento anni fa in cui la chimica e la farmaceutica sembravano trainanti, oggi quello che ne rimane sono piccole realtà, spesso contoterzisti di impianti e laboratori che lavorano altrove, in attesa di un’ulteriore delocalizzazione.
La cassa integrazione nel primo bimestre del 2024 è aumentata dell’83,6 per cento. Il che evidentemente significa l’azzeramento di qualunque ipotesi di rilancio produttivo, un immenso servizio di vassoi d’argento all’economia del nero e della rendita. Il settore edilizio, dopato per qualche anno dal bonus 110, sta di nuovo implodendo.
La rendita. Latina ha una conformazione strana. Non è soltanto la città a essere di fondazione, ma tutto il sistema dei borghi intorno alla città: Borgo Carso, Borgo Sabotino, Borgo Grappa… Quest’area mantiene ancora di più l’impronta della rendita dei vecchi coloni. Chi altro è padrone dei campi dove lavorano i braccianti sikh? Quest’area è, come nessun altro posto in Italia, un feudo di Fratelli d’Italia che arriva a prendere il 50-60 per cento, e insieme al centrodestra anche l’85-90 per cento. Perché Meloni e compagnia dovrebbero intervenire a contrastare questo sistema economico?
Alleato di questa cultura è anche il vescovo di Latina, monsignor Crociata, su posizioni sempre più conservatrici. Sulla rivista Adista di qualche mese fa un pezzo di Luka Cocci raccontava la sua distanza dalla temperie solidale della chiesa di Francesco, la sua vicinanza a quella identitaria ratzingeriana, e soprattutto la vicinanza organica ai politici della destra e ai vecchi esponenti conservatori, da Rocco Buttiglione a Paola Binetti. Il comunicato dopo la morte di Satnam Singh brilla per mancanza di empatia: nessun riferimento alla famiglia, nessuna denuncia delle responsabilità.
Fa specie ma non stupisce, in questo quadro, il fatto che a Borgo Santa Maria, a due chilometri dall’azienda dei Lovato, per cui lavorava Satnam Singh, sabato non si è fermata la festa patronale: “Quel poveraccio ha fatto la fine orrenda che ha fatto e la festa è andata avanti. I Lovato stanno a due chilometri, il ragazzo morto e sua moglie abitavano a non più di quattro. Io dico che il parroco avrebbe potuto almeno chiedere di non suonare o, che ne so, per una sera fermarsi a parlare di quello che era successo. Invece niente, sono andati avanti fino a tarda notte. E stasera la festa continua”.
Anche il sistema di welfare informale della comunità sikh, se da una parte fa da minima protezione e tutela della sopravvivenza persino in alcuni casi – mangiare e dormire viene magari garantito proprio da chi frequenta il tempio – dall’altra parte, soprattutto dopo la pandemia, rischia di adulterare le forme di resilienza collettiva in possibilità di sfruttamento collettivo. C’è poca letteratura scientifica a riguardo, ma occorrerebbe approfondire il ruolo spesso ambivalente delle comunità religiose nell’intersezione tra Stato e mercato.
La verità è che ci interessiamo sempre degli epifenomeni e mai dei fenomeni strutturali. Si parla di mancanza di diritti ma poco della condizioni che producono una cultura che non è vuole riconoscere quei diritti. Di quale è l’ideologia dei padroni delle campagne pontine nel 2024. Oppure Si parla di cibo, non si parla mai di chi produce il cibo. Ne parlava Antonio Pascale ricordando Alessandro Leogrande ancora una volta. Mesi di polemica sulla carne sintetica e il granchio blu, nessun interesse per lo sfruttamento nell’agroalimentare. Quando il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida parla di filiera di qualità sembra non riferirsi mai alla qualità del lavoro.
Un’inchiesta di Francesca Cicculli, Charlotte Aagard, Kusum Arora, Stefania Prandi per Irpimedia, di poco più di un anno fa, mostra un altro elemento di sistema, la catena dei subappalti di multinazionali che determinano prezzi dei fornitori e quindi condizioni di lavoro. Il caso del kiwi è emblematico: “Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei Paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5 per cento). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti”.
Il fatturato di Zespri è quasi di tre miliardi di euro, 200 milioni e passa di cassette vendute in tutto il mondo. L’espansione della coltivazione di kiwi in cinque anni è praticamente raddoppiata – 2700 ettari nel 2019, 5400 ettari nel 2025. Il sistema di controllo della qualità del prodotto è rigidissimo, il sistema di tutela degli operai dei campi fa acqua da tutte le parti: scatole cinesi, subappalti, contratti grigi, quello che Marco Omizzolo chiama “melassa imprenditoriale”.
Nell’intervento dei rappresentanti di Libera di sabato scorso si diceva che la provincia di Latina è anche animata da imprenditori agricoli “che diventano essi stessi vittime di una concorrenza sleale da parte di aziende che mortificano i diritti. Nel pontino su oltre 7000 aziende agricole solo 173 si sono iscritte alla rete del lavoro agricolo di qualità che nasce con l’intento di arginare il fenomeno del caporalato nel settore agricolo”.
Nel sesto Rapporto su agromafie e caporalato della Fondazione Placido Rizzotto si legge circa 230mila i lavoratori senza un contratto regolare, circa un quarto del totale, che sono circa un milione. Il rapporto sottolinea che tra i lavoratori ci sono “circa 55.000” donne che “si trovano a vivere un triplice sfruttamento: lavorativo, per le condizioni in cui lavorano; retributivo, perché anche tra “sfruttati” la paga delle donne è inferiore a quella dell’uomo; e, infine, anche sessuale e fisico.”
Questo sistema di sfruttamento è un sistema globale integrato. Aziende multinazionali che sfruttano contesti di lavoro dove è facile ignorare diritti come quello dell’agro pontino che a sua volta sfrutta le condizioni di povertà e sfruttamento materiale di un’area come il Punjab, da dove vengono la maggior parte dei braccianti sikh che lavorano nei campi laziali.
Anche qui non è semplice distinguere nella filiera degli intermediari chi fa il caporale e chi il sindacalista davvero, chi tutela i diritti e chi li sfrutta, i consulenti legali che fanno gli interessi dei lavoratori e quelli che sono al soldo degli sfruttatori. “Capita anche di intercettare soggetti che si trovavano in India o di avere indizi di colpevolezza a carico di soggetti all’estero, ma la mancanza di trattati ad hoc e la scarsità di mezzi ci impediscono di andare oltre”, veniva spiegato in un’inchiesta di un paio di anni fa uscita sul mensile del Fatto quotidiano Millennium.
Potremmo accumulare altri elementi che incorniciano ancora meglio le precondizioni di quello che si configura come un neofascismo agrario. Ma la realtà è sempre più compiuta nel disegnare queste forme di distopia nostalgica. Qualche giorno fa è stata approvata l’istituzione di una Fondazione, denominata “Latina 2032”, costituita dal ministero della Cultura, che guiderà le celebrazioni per la fondazione della città: 10 milioni dal 2024 al 2032, una specie di Giubileo neofascista che farà piovere soldi in una città sempre più impoverita e che garantirà consenso da qui a prossimi anni, senza che chiaramente cambi nulla.