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Martina Scialdone, uccisa dall'ex a Roma

Martina Scialdone non è stata uccisa dall’indifferenza, ma da un uomo violento

Martina Scialdone è stata uccisa da un uomo violento che non avrebbe dovuto possedere un’arma da fuoco, un venerdì sera fuori da un ristorante. Ma invece di parlare delle azioni di Costantino Bonaiuti, su parte dei media si è imposta la narrazione per quale Martina sarebbe vittima dell’indifferenza: leggendo le carte dell’inchiesta finora emerge però tutt’altra realtà.
A cura di Jennifer Guerra
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Si sta molto parlando del femminicidio di Martina Scialdone, avvenuto fuori da un ristorante a Roma.Il luogo e le circostanze in cui questa ennesima violenza di genere è avvenuta, i soggetti coinvolti e la dinamica stanno facendo molto discutere, vuoi perché pensiamo erroneamente che i femminicidi avvengano soltanto in contesti di degrado e marginalità, vuoi perché come al solito sta prendendo piede una narrazione “romanticizzante”. In particolare, ciò che ha subito colpito è il fatto che l’omicidio sarebbe avvenuto in un clima di indifferenza, specie da parte dei dipendenti e degli avventori del ristorante. Leggendo le carte dell’ordinanza di conferma della custodia cautelare in carcere per Costantino Bonaiuti, emerge però una storia diversa, certamente più complessa.

Secondo le dichiarazioni rese dal proprietario, dal cuoco e dalla cameriera del ristorante, non solo ci sarebbe stato un intervento per capire cosa stesse succedendo nel bagno in cui era entrata la coppia, ma anche una chiamata al 112. Scialdone, intuendo la gravità della situazione, avrebbe inviato la posizione su WhatsApp a un’amica. C’è poi il ruolo del fratello Lorenzo che, dopo aver ricevuto la telefonata preoccupata dalla sorella, si è subito precipitato sul luogo per aiutarla. È lui che, dopo aver diviso i due che litigavano, ha visto Bonaiuti sparare alla donna. Bonaiuti aveva il porto d’armi per uso sportivo, ma pare non fosse solito portare con sé armi. Proprio il fatto che non fosse sua abitudine girare con la pistola suggerirebbe la premeditazione dell’omicidio.

Tutti questi dettagli andranno confermati con ulteriori indagini e il processo, ma quella che è stata ricostruita dalla polizia non è la situazione di totale indifferenza dei presenti descritta con tanta animosità dai giornali. Scialdone era circondata da una rete di supporto amicale e famigliare, che è intervenuta subito in suo aiuto, e se la versione dei ristoratori corrispondesse alla realtà, anche il loro comportamento è stato corretto.

Il racconto dell’indifferenza è molto efficace dal punto di vista della narrazione mediatica, e non è la prima volta che lo vediamo scritto. Ma è anche un racconto semplicistico e deresponsabilizzante. L’avvocato dell’indagato per omicidio non ha mancato di sottolineare che “se tutti avessero fatto il loro lavoro, il loro compito di cittadini, questa ragazza sarebbe ancora viva”. Sarebbe più giusto dire che se qualcuno non avesse sparato, questa ragazza sarebbe ancora viva. Se è vero che la violenza di genere è una responsabilità collettiva, non bisogna pensare che questo oscuri le responsabilità personali: concentrarsi su cosa hanno fatto o non hanno fatto tutti gli altri ha già dato spazio alla redenzione di “Costy” (soprannome riportato dai giornali), un “funzionario esperto con qualche scatto d’ira”, depresso e presumibilmente malato di tumore.

Bonaiuti non è il classico mostro da sbattere in prima pagina, e così se n’è subito cercato un altro, il "popolo" indifferente che continua a mangiare la propria cena mentre si consuma un omicidio. Oggi in molti si interrogano sugli esiti alternativi della vicenda a fronte di un possibile intervento degli astanti. E in questo modo passa in secondo piano l’interrogativo, altrettanto urgente sul piano della responsabilità sociale, sul perché, se Bonaiuti era davvero in cura per la depressione come sostiene il suo avvocato, avesse ancora il porto d’armi e quattro pistole di sua proprietà. Questa fondamentale domanda, che putroppo ricorda tante domande simili che sarebbe opportuno farsi nei casi di violenza domestica, sembra essere sostituita in queste ore da un processo alle intenzioni, mentre qui ci troviamo di fronte a un fatto concreto.

È molto facile, a centinaia di chilometri di distanza e dietro una tastiera, affermare con assoluta certezza che noi, al posto degli avventori del locale, saremmo intervenuti. Ma come? Se non siamo minimamente educati a riconoscere la violenza di genere, se non sappiamo parlarne con responsabilità, se non troviamo nei media quel fondamentale collegamento tra il singolo fatto e i problemi sistemici, con quali strumenti dovremmo intervenire in una situazione di violenza? Quale intervento possiamo aspettarci da dei cittadini che nelle stesse ore in cui tutti danno la colpa a loro, subiscono una dieta mediatica fatta di congetture, gossip e ricostruzioni fantasiose? Non possiamo sapere se Martina si sarebbe salvata se le cose fossero andate diversamente, se l’intervento degli avventori, dei proprietari del locale o del fratello fosse stato più incisivo. Ma possiamo dire con certezza che abbiamo bisogno di un modo migliore di parlare di violenza di genere, perché assumersene la responsabilità non sia, ancora una volta, puntare il dito contro qualcun altro che non siamo noi.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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