Mafia Capitale: processo di appello bis, chiesti 11 anni per Carminati e 12 per Buzzi
Si avvicinano le battute finali del processo che ha cambiato la storia recente di Roma. Il procuratore generale Pietro Catalani ha chiesto una condanna a 11 anni di reclusione per Massimo Carminati e 12 anni e 8 mesi per Salvatore Buzzi nell'ambito dell'inchiesta Mondo di Mezzo, sull'associazione nota come Mafia Capitale. Il processo di appello bis si è aperto dopo che la Corte di Cassazione ha fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa. L'ex Nar e il ras delle cooperative sono tornati in libertà per decorrenza dei termini da pochi mesi, dopo l'arresto avvenuto il 2 dicembre 2014, passando la maggior parte del tempo in regime detentivo di 41 bis.
Erano stati condannati Salvatore Buzzi a 19 anni di reclusione al termine e a 20 anni Massimo Carminati, al termine della sentenza di primo grado. Per il secondo grado di giudizio, pur riconoscendo l'associazione mafiosa del sodalizio, le pene erano state leggermente riviste al ribasso con Carminati che venne condannato a 14 anni e mezzo, e Buzzi a 18 anni e 4 mesi, pene che ora saranno nuovamente ricalcolate alla luce della decisione della Cassazione.
Le richieste di condanne per gli altri imputati
Il procuratore generale ha chiesto l'assoluzione per Antonio Esposito. Chieste nuove pene per alcuni degli imputati che stanno affrontando il rito ordinario: Pierpaolo Pedetti (2 anni e 1 mese), Angelo Scozzafava (2 anni e 3 mesi), Agostino Gaglianone (3 anni e 1 mese), Claudio Bolla (3 anni e 2 mesi). Sono invece tredici gli imputati che hanno chiesto di patteggiare la pena, ci sono tra questi Luca Gramazio (5 anni e 7 mesi), Fabrizio Franco Testa (6 anni), Riccardo Brugia (7 anni). Richieste di concordato di pena che dovranno ora essere valutate dai giudici della Prima Corte.
Se Massimo Carminati non ha rilasciato dichiarazioni al di fuori dell'iter processuale, Salvatore Buzzi dopo la pubblicazione di un libro è intervenuto numerose volte in televisione e sulla stampa, rivendicando la sua innocenza rispetto all'essere al vertice di un'associazione di stampo mafioso, attaccando il sistema politico che lo avrebbe condannato dopo averlo usato.