Lina Wertmüller, la sua Roma e quell’attico con affaccio mozzafiato su piazza del Popolo
La baronessa Arcangela Felice Assunta Wertmuller von Elgg Spanol von Brauelich, Lina Wertmüller, è morta oggi all'età di 93 anni. È nata a Roma nel 1928 "in una villetta rosa", come lei stessa ha raccontato, che si trovava dietro piazza Cola di Rienzo. L'ultima casa dove ha vissuto nella Capitale, la sua città da sempre, è un attico con affaccio mozzafiato su piazza del Popolo: "Guscio, rifugio, caverna, grotta: chiamala come ti pare, inventa la banalità che preferisci. è la mia casa. Anzi, la casa di Enrico. è lui che l’ha creata, è lui che l’ha arredata, è lui che ha scelto ogni cosa, è lui che l’ha voluta così. Io non mi sono occupata di nulla", ha descritto il suo appartamento da sogno in un'intervista rilasciata a La Repubblica nel 2011. ‘Enrico' è Enrico Job, artista, scenografo e scrittore italiano, marito della regista morto nel 2008. Il suo corpo è stato cremato e le sue ceneri sono state sparse nel Giardino dei Ricordi al Cimitero Flaminio. La giornalista Laura Laurenzi, firma di Repubblica, descrisse così la casa di piazza del Popolo: "Quattro piani affacciati su piazza del Popolo, cuore di Roma, e riempiti di libri, mobili, televisori ultrapiatti. Il tutto moltiplicato da decine di riflessi".
Lina Wertmüller e l'attico affacciato su piazza del Popolo
Nella sua autobiografia "Tutto a posto e niente in ordine. Vita di una regista di buonumore", Lina Wertmüller racconta i motivi che l'hanno spinta ad acquistare lo splendido attico affacciato su piazza del Popolo. La regista abitava in un piccolo attico in via Ennio Quirino Visconti, quartiere Prati, a pochi passi dal ‘Palazzaccio' e da Castel Sant'Angelo.
"Non mi ricordo chi fu a parlarmi di un attico che dava su piazza del Popolo. Enrico, in quel periodo, stava lavorando con Luca Ronconi. lo andai sola a visitare la casa e me ne innamorai, così mi recai subito dal proprietario e gli lasciai un assegno di tre milioni, senza farmi rilasciare neppure un foglietto per ricevuta. Era tutto quello che avevo. Per mia fortuna, quel signore era un vero gentiluomo. Quando Enrico lo venne a sapere mi dette della pazza. Mi disse anche che non voleva finire in galera per la mia incoscienza. Ma l'incoscienza è una buona consigliera. Infatti, quando poi vide la casa, mi dette ragione e insieme, in un felice periodo di lavoro, riuscimmo a pagarla. Piazza del Popolo è una piazza speciale. Era la più importante entrata a Roma dalla Via Flaminia. Nuvole barocche arricciolate come la barba del vecchio Michelagnolo spazzano col vento caldo un cielo antico; e gli ultimi raggi del sole, oro e rosa, si divertono a trasformare quei riccioli bianchi in paffuti sedermi di puttini che si rincorrono nell'azzurro. In quel fondale fronzuto, ondeggiante di palme, scintillante di fontane e biancheggiante delle statue degli dei del Pincio, per me c'è sempre, lontana, un'eco della mia infanzia: l'antico gazebo liberty e, la domenica mattina, la banda dei carabinieri col pennacchio, che suona la Gazza ladra. Talvolta, i miei ospiti americani, guardando dalla terrazza la bella scenografia della piazza, mi domandano, per fare gli spiritosi: «It's maestro Job's decor?». «Job, with Michelangelo and Valadier for assistants…» Verrà colta l'ironia? Confido nella stessa lunghezza d'onda del «sense of humour».
Piazza del Popolo: popolo viene da populus, pioppo, e non popolo, plebe. C'erano i pioppi, anticamente, qui, prima che la piazza diventasse l'ingresso nord di Roma, con le sue tre strade puntate su obelischi e basiliche, e la quarta verso San Pietro, di fronte al colle del Pincio. Davanti a Santa Maria del Popolo, Mastro Titta, il boia della capitale, tagliava le teste ad assassini e patrioti. I papi erano duri, quasi come quelli che oggi chiedono la pena di morte. Dalla nostra terrazza il punto di vista è speciale, privilegiato. È il controcampo della terrazza del Pincio. Eh… Roma, Roma, Roma: conosce le proprie grazie e se ne sta sensuale e pigra, adagiata lungo il fangoso fiume, che civettosamente chiamano biondo Tevere, a sventolarsi mollemente ponentini e scirocchi, sicura del suo charme millenario. Questa entrata in Roma è iniziatica. Ci inizia al viaggio con un rituale magico. Le due cupole delle chiese gemelle sono grandi tette e Fellini, che ci abitava sotto, lo sapeva bene. L'obelisco è chiaramente un simbolo fallico, eretto a sfidare tempo e vecchiaia, di certo stuzzicava i sogni del «grande vitellone», e la porta michelangiolesca è la più ambita e discussa: le femministe la pretendono di natura vulvare, ma i gay sono sicuri che si tratti di altro pertugio, quello di Eliogabalo, per intenderci.