Di Christian Raimo e Graziano Graziani
Non è una scena madre né un colpo di scena, ma una brutta drammaturgia già vista e prevedibile al Teatro di Roma. I postfascisti si comportano da tradizione, e hanno un’idea delle politiche culturali di fatto illiberale.
Stamattina è stata convocata una conferenza stampa d'urgenza dal Presidente del cda, Francesco Siciliano, che annunciava una spaccatura profonda e senza precedenti: lui e la consigliera Natalia Di Iorio hanno lasciato la riunione di cda, per la quale Siciliano ha chiesto l'aggiornamento, ma i tre membri rimanenti (espressione del Ministero dei Beni Culturali e della Regione Lazio) sceglievano di proseguire in autonomia. Questo nonostante il regolamento preveda espressamente come obbligatoria la presenza del presidente affinché il cda possa deliberare. E la discussione non era di poco conto: si trattava della nomina del direttore generale della fondazione.
Dopo tre anni di commissariamento – che ha visto appunto anche il passaggio da associazione a fondazione – la nomina del direttore generale era attesa e imprescindibile non solo per il rilancio di un teatro pubblico sempre più in affanno, ma anche per una normale forma di democrazia istituzionale. Circolavano con insistenza soprattutto due nomi, il regista Luca De Fusco, ex direttore del Teatro stabile di Napoli, e Ninni Cutaia, ex direttore generale dello spettacolo al Mibact e ultimo direttore dell'estinto Eti. A questi va aggiunto il nome di Marco Giorgetti, direttore della Pergola di Firenze, che chiudeva la terna selezionata da una commissione apposita su 42 domande pervenute (manifestazione di interesse che, comunque, non era vincolante, e che di fatto non ha contato nulla).
Stando a quanto ha raccontato Siciliano, non è stato mai davvero possibile scendere nel merito delle proposte di candidatura. Le 42 domande arrivate, che riportavano nel dettaglio il progetto di rilancio del teatro e constavano di 10, 15 o 20 pagine ciascuna, sono state vagliate in circa due ore e mezzo dalla commissione di selezione: una forma di disprezzo che mostra un metodo. Quando lo stesso lavoro era stato svolto dal teatro per la selezione precedente, a fronte di 19 domande c'erano volute due settimane. Come a dire che, stando a quanto ricostruisce il presidente del Teatro di Roma, i sospetti che tutto fosse già deciso in partenza è molto forte.
Siciliano ha fatto anche notare che, nonostante Roma Capitale sia in minoranza nel cda, è il socio che mette da solo circa i due terzi del budget del teatro, oltre ad essere il proprietario dei tre teatri di cui dispone l'ente (Argentina, India, Torlonia) e del quarto teatro che dovrebbe aggiungersi, il Valle. Per questo, al netto delle considerazioni numeriche e di cavillo, ci si aspettava una composizione dei punti di vista che potesse soddisfare tutte le parti in campo. Così non è stato: i membri espressi da regione e ministero erano compatti sul nome di De Fusco, e non disponibili a entrare nel merito delle proposte.
Di che merito parliamo? Secondo Siciliano il momento è delicato per il Tdr, che esce da un lungo commissariamento dove l'ente è riuscito a garantire i numeri richiesti dal ministero, ma ha visto erosa, per la lentezza tipica dei commissariamenti, la sua capacità di dialogo con i tanti pubblici che storicamente si rivolgono ai suoi teatri, con il tessuto creativo degli artisti romani e con la capacità di agire come player nazionale in progetti di coproduzione ed ampio respiro). Una situazione richiede la figura di un manager. Un direttore che abbia una visione ampia ed inclusiva. Un ragionamento che quindi farebbe ricadere la scelta sugli altri due candidati e, nello specifico, su quello che ha più conoscenza della macchina istituzionale, Ninni Cutaia.
Natalia Di Iorio ha aggiunto di essere sempre stata dalla parte degli artisti, e proprio per questo una scelta che garantisca la pluralità sarebbe assai più consapevole della visione di un singolo artista. Un singolo artista che dovrebbe pensare a quattro cartelloni, a fare le proprie regie, a rilanciare la struttura e riorganizzare gli uffici in affanno, dopo un commissariamento così lungo. Troppe cose per un uomo solo al comando, che necessariamente dovrebbe dotarsi di consulenti, andando così a erodere le economie del teatro.
E qui in effetti c'è un punto importante da mettere in evidenza. I tre candidati selezionati sono nati nel 1958, 1959 e 1960; tra i tre nomi non ci sono donne (e questo è stato fatto notare con disappunto anche da una dei tre membri della commissione selezionatrice, Berta Zezza). Uno sguardo molto ristretto, che premia solo l'esperienza e l'appartenenza al sistema dirigenziale del teatro pubblico, ma voluto, poiché la commissione poteva scegliere fino a cinque nomi.
Senza scomodare l'estero, come la Germania, dove Ostermeier è diventato direttore della Schaubühne a trent'anni, basta ricordare che lo stesso Teatro di Roma fu diretto da Mario Martone quando ne aveva quaranta: una fase della vita artistica ricca di energia, e in effetti quella direzione ha lasciato un segno nella storia teatrale della città. C'è però sempre e comunque un ritardo rispetto a quanto si sperimenta all'estero, ad esempio con le direzioni condivise da gruppi di artisti, studiosi e operatori. Gruppi che, ça va sans dire, non percepiscono singolarmente gli stipendi che di norma il sistema del teatro pubblico garantisce alle sue figure apicali.
Se oggi un direttore può arrivare a costare, al lordo, anche 200mila euro all'anno, è facile capire come un team di gestione potrebbe essere garantito con la stessa cifra. Occorrerebbe però rivolgersi a gente giovane, motivata, che non subordina la sua visione del teatro agli zeri del compenso della sua carica.
Il disastro annunciato – l’arroganza della destra al potere – è stato annunciato anche in maniera arrogante. Il Messaggero ha dato la notizia di Luca De Fusco direttore generale senza che ci fosse un comunicato del Teatro di Roma, facendo una forzatura irrispettosa di qualunque deontologia o forma istituzionale.
Poco dopo è arrivata una dichiarazione del teatro di Roma. Riportava le parole della conferenza stampa d’urgenza convocata da Siciliano: “È grave fare nomine per il teatro di Roma senza Roma. Una scelta per la direzione del Teatro Roma che taglia fuori la città sarebbe una rottura del patto territoriale che è alla base di questo teatro”. Poco dopo è uscita una nota dell’assessore alla cultura di Roma, Miguel Gotor: “È in corso un tentativo di occupazione da parte della destra di una fondamentale realtà del sistema culturale romano e italiano che denunciamo e a cui ci opporremo con tutte le nostre forze. La libertà e l’autonomia della cultura sono valori non negoziabili. Spero che nelle prossime ore prevalgono la ragionevolezza e il buon senso”.
Fa abbastanza specie non comprendere come cade nel vuoto una richiesta di ragionevolezza e buon senso proposta a chi pensa di occupare i centri di produzione culturale, dalla Rai alla Biennale di Venezia, con logiche di appartenenza se non di fedeltà, che rimarca tutti i giorni una postura ideologica ostile alla storia democratica, che non ha nessuna voglia di confronto sul merito delle scelte ma rivendica di preferire una logica di occupazione persino a quella di spartizione