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Il presidente di Libera Roma: “Nella capitale troppe le armi nelle mani dei clan”

Gaetano Salvo è il referente di Libera a Roma. Intervistato da Fanpage.it, ha spiegato a che punto siamo nella capitale nella lotta alla mafia e cosa dovrebbe prevedere un piano per sensibilizzare grandi e piccini alla cultura della legalità.
A cura di Beatrice Tominic
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La mafia a Roma si tocca con mano. Gambizzazioni in strada e agguati sono episodi noti. L'ultimo è avvenuto lo scorso 23 maggio, data dell'anniversario della Strage di Capaci, in cui è stata colpita alla schiena una donna di 81 anni in via Prenestina. Caterina Ciurleo è morta qualche ora dopo. 

Le indagini sul caso sono coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia, ora spetta agli agenti ricostruire l'accaduto e se davvero si sia trattato di uno scambio di persona nell'ambito di un conflitto fra due bande rivali. Sicuramente non è un episodio isolato, quindi questo deve spingerci ad una riflessione sicuramente su due temi: quello della disponibilità delle armi e quello del ruolo delle periferie.

Cosa intende dire?

Sicuramente, nel primo caso, l'ampia disponibilità di armi a Roma porta poi all'uso di queste stesse armi, in varie occasioni. Quindi sicuramente anche in ambito di scontro fra clan. Lo dimostrano i blitz  e i sequestri da parte delle forze dell'ordine. Più armi ci sono più sarà possibile utilizzarle per regolare conti interni fra clan differenti o tra gruppi. Il secondo tema è strettamente connesso al primo: queste attività spesso avvengono nelle periferie della nostra città. E qui si aprono scenari più variegati.

Ad esempio quali?

Le periferie spesso vengono raccontate come covi di organizzazioni criminali, ma è ovvio che debba essere fatto un ragionamento molto più ampio sul tema della sensibilizzazione della cultura della legalità. Non serve sicuramente una militarizzazione di quei di quei territori. Piuttosto è necessario che si lavori sui diritti, da quello al lavoro all'istruzione, sulla giustizia sociale, strettamente connessa alla cultura della legalità. Ma la mafia a Roma non si è stabilita soltanto nelle periferie. Esistono organizzazioni differenti in zone differenti.

Possiamo dire che la mafia opera anche in centro città, per molti più insospettabile?

Sicuramente. Dobbiamo dividere più piani. Da una parte ci sono le periferie, dalle zone di sud est, come Romanina, Tor Bella Monaca e San Basilio, ma anche a Corviale o più ad ovest, come Primavalle o Ostia. Ma è in centro città che abbiamo la presenza più importante di riciclaggio, attività ormai radicata nel tessuto economico di Roma. Sono tantissime le attività commerciali che sono state sequestrate, alcune sono andate anche in confisca e alcune sono ripartite. In questo la mafia è molto equa. Opera in centro città, così come in periferia. E anche in provincia, come ad Anzio e Nettuno, comuni sciolti per infiltrazione.

In cosa varia l'organizzazione dei gruppi criminali?

Nelle attività in primis. Alcune sono attive nel narcotraffico e altre nello spaccio. C'è chi lavora su piazze di spaccio chiuse, all'interno del territorio e chi su quelle più aperte, fluide, senza un vero e proprio controllo stretto sul territorio. Inoltre ci sono alcune che godono di un'organizzazione precisa, altri invece sono casi isolati. Difficile mapparle e ancor più difficile fornire un numero esatto. Ma sono tante e diverse fra loro. E poi c'è il riciclaggio, che non avviene solo in centro.

Quali sono le altre zone coinvolte?

Ci sono investimenti in diverse zone della nostra capitale, in tante attività e in vari ambiti, dal mondo della ristorazione all'alberghiero, dalle agenzie immobiliari alle attività di sale bingo o slot. Non solo in centro, ma anche al Tuscolano, al Tiburtino, a Centocelle. Non esiste una spaccatura chiaramente fra quartieri. Anche se, naturalmente, il centro offre terreno fertile, come dimostrano anche sequestri e indagini e accertamenti da parte di questura e prefettura soprattutto dopo il covid.

Quindi la presenza delle mafie a Roma esiste da tempo, non è un fenomeno in crescita negli ultimi anni.

Come dice il nostro fondatore, Don Luigi Ciotti, negli ultimi anni si è assistito ad una normalizzazione della mafie. Ed esistono anche nella città di Roma anche se per anni si è sottovalutato il problema, cosa che ha portato le attività criminali ad organizzarsi e a crescere. Soltanto in tempi recenti si è scoperto, ad esempio, di gruppi locali di ‘ndrangheta laddove, invece, si pensava ci fossero soltanto alcuni esponenti.

Un caso lampante è quello del litorale romano.

Esatto. Non dimentichiamoci che i comuni di Anzio e Nettuno sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose. Nel territorio romano, l'ascesa di organizzazioni criminali, anche straniere, ad esempio di origine albanese, deve farci riflettere e prendere consapevolezza sul genere di società in cui viviamo. La mafia si muove in tanti ambiti, come abbiamo visto anche in Emilia Romagna o in Trentino con l'inchiesta Perfido.

Una presenza diffusa in tutta Italia, da nord a sud. Qual è il ruolo della lotta alle mafie nell'agenda politica del nostro Paese?

Sebbene negli ultimi anni siano molti i libri scritti sulla mafia, il tema è molto meno presente nell'agenda politica. Si parla spesso di un sistema di repressione contro le mafie. Ma per il resto sembra essere diventato uno dei tanti problemi che esistono, anche a livello internazionale. Sono scoppiate nuove guerre, anche vicino al nostro Paese. Questo ha portato probabilmente la politica ad interessarsi meno di questi temi. E anche l'anno di svolta nella lotta alle mafie, il 1992, è passato da tanto tempo. Per quanto il tema sia forte, si pensa che alcune battaglie siano state raggiunte e quindi se ne parla di meno. Ma questo ci preoccupa. Così come a preoccuparci è il tema del riutilizzo sociale dei beni confiscati.

Cosa vi preoccupa in particolare?

Ogni tanto si ritorna a parlare di vendita di questi beni, quando noi, invece, sin dalla nostra nascita, abbiamo parlato di riutilizzo sociale di assegnazione alle associazioni e realtà sociali. Per questo dobbiamo rappresentare uno stimolo costante per la politica. Per ricordare quanto il riutilizzo sociale rappresenti un lavoro di lotta alle mafie. Cerchiamo di essere da stimolo nei municipi e nelle amministrazioni comunali, ricordando le date simbolo della nostra lotta o proponendo nuove attività, come contributo più tangibile. Poi ci deve essere una risposta proattiva. E qui inizia il nostro lavoro nei territori.

Ad esempio?

Con associazioni, gruppi scout, realtà sociali e cooperative curiamo la gestione dei beni confiscati, utilizziamo tutti gli strumenti economici e sociali che possiamo permetterci. I beni confiscati creano comunità. Da Lecco a Teano, fino alla Puglia, alla Calabria e alla Sicilia troviamo realtà di questo genere che hanno saputo creare un'economia differente e una comunità dove prima c'era la mafia. E ovviamente anche a Roma e nel Lazio.

Possiamo dire che queste comunità rappresentano una delle forme di contrasto alle mafie?

Certamente. La magistratura e le forze dell'ordine stanno effettuando un lavoro egregio, le indagini sono veramente tante in questi ultimi anni. Ma adesso più che utilizzare sistemi repressivi serve tanto lavoro di sensibilizzazione dei cittadini e delle cittadine, anche giovanissimi. E creare nuove comunità aiuta, sia adulti che giovani. A questi ultimi, in particolare, sono riservati percorsi nelle scuole: ricordiamo loro che nessun territorio è esclusivamente in mano alle attività organizzate. Ma che anche quando non la vedono, c'è sempre un'alternativa. La stessa situazione è da replicare per gli adulti: a loro spetta fare una scelta etica.

Ci condivide qualche esempio tangibile?

In alcuni territori sono nate associazioni, in altri festival. In altri casi ancora, sono esemplificativi proprio gli immobili confiscati alla mafia e poi riutilizzati per attività sociali, comunità. Le alternative sono nate ad esempio ad Ostia, dove organizziamo attività in piazza. Tor Bella Monaca è un altro esempio. O, spostandoci ancora ad est, è il caso di Campo Romano alla Romanina, nelle ville confiscate al clan dei Casamonica: una di queste è diventata un centro per accogliere i ragazzi autistici, un'altra è dedicata a docenti e studenti della rete sociale. Sappiamo che in alcuni territori la strada è più lunga che in altri, ma non ci arrendiamo.

Molte attività sono più dedicate a giovani e giovanissimi.

Il nostro impegno va soprattutto a loro. A scuola spesso l'educazione alla legalità diventa quella di educazione civica: i percorsi all'interno delle scuole devono diventare più strutturati. Bisogna parlare con le giovani generazioni. Non tanto per fare il quadro della situazione, ma per far capire cosa voglia dire avere la presenza di organizzazione criminali nei territori in cui vivono. Non devono restare indifferenti. L'indifferenza è contiguità, quindi vuol dire comunque prendere una posizione. E questo aiuta le mafie.

In che senso?

La forza delle organizzazioni criminali è la presenza nei territori. Ma sono proprio loro a distruggere il tessuto sociale ed economico del quartiere in cui si trovano, rappresentando la fine della comunità. Non c'è alcuna ricchezza, neanche se ogni piazza di spaccio porta guadagni da migliaia di euro al giorno. I clan sanno che spesso possono sfruttare queste situazioni, anche fra i giovanissimi.

A questo proposito, pensa che il decreto Caivano possa essere una soluzione per allontanare i giovani dalla criminalità?

Ragazzi e ragazze diventano prede più facile per la mafia quando si trovano in condizioni economiche non agiate. Legato a questo, c'è anche il tema della dispersione scolastica che porta giovani e giovanissimi ad avvicinarsi alle piccole attività da fare, come la gestione della piazza di spaccio in alcuni territori. Ma la repressione non è la risposta. Crediamo in percorsi alternativi al carcere, per loro. E crediamo tanto nel far capire che ci sono delle alternative. Spesso chi nasce e cresce in un determinato territorio non le vede. Ma quella della criminalità non deve e non può essere l'unica alternativa. Serve consapevolezza e sensibilizzazione su questi temi: è un percorso più lungo, ne siamo consapevoli, però crediamo sia molto più sia quello efficace.

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