Gaetanaccio il Burattinaio: la storia dell’artista di strada che rese famoso Rugantino
C’è qualcosa di tragico e poetico nel modo in cui alcuni personaggi sono divenuti leggendari. In questo caso il personaggio è uno come tanti ce ne sono stati nella storia, morto di fame e malattia nella Roma del XIX secolo. Si tratta di Gaetano Santangelo, conosciuto come Gaetanaccio il Burattinaio: nato a rione Borgo nel 1782, questo artista di strada fu uno dei più amati e apprezzati burattinai dell’epoca, ricordato soprattutto per aver reso celebre la maschera di Rugantino con i suoi spettacoli ambulanti. Il suo nome è anche protagonista di una delle commedie teatrali più famose degli ultimi 40 anni: ecco qual è stata la sua storia.
Gaetanaccio Burattinaio, simbolo del popolo romanesco
La figura di Gaetanaccio è sopravvissuta ai secoli grazie alle opere di due poeti dialettali romani, Giggi Zanazzo e Filippo Chiappini: entrambi, nelle loro opere lessicografiche e storiche sul folclore e la lingua romanesche, rintracciano nel burattinaio di rione Borgo il simbolo dell’arguzia popolaresca della Roma papalina. Un’arguzia che mascherava miseria, fame e povertà, ma sempre pronta a caricarsi sulle spalle il peso del proprio destino:
Fin dalla sua gioventù cominciò ad essere tossicoloso, e questo malanno con l'andare del tempo gli si andò sempre aumentando, talmente che alcune volte gl'impediva affatto di vociferare. Ciò nonostante, egli si strascinava per la città col suo casotto sulle spalle anche in mezzo ai rigori dell'inverno, poiché senza ciò sarebbe mancato il pane alla sua famiglia.
Gaetanaccio, “arto, palido, vestito cor un sacchetto de cottonina” e con “una fame, poveraccio, che se la vedeva coll’occhi”, venne spesso raffigurato con il suo “castello” sulle spalle, curvo per la fatica mentre si avviava verso l’ennesima rappresentazione di burattini: fu uno dei primi ad utilizzare la struttura di legno che ancora oggi cela i burattinai al pubblico creando l’illusione dello spettacolo e, soprattutto, uno dei primi a dare voce all’arrogante Rugantino.
Gaetanaccio e la fama di Rugantino
La celebre maschera carnevalesca era probabilmente già nota a Roma, ma fu proprio Gaetanaccio a renderla la star indiscussa delle sue rappresentazioni: la strafottenza del bullo di Trastevere serviva al misero burattinaio per portare in scena tutte le contraddizioni dell’epoca, fatta di nobili e prelati ricchi e incuranti del popolo, e di uno spirito plebeo che non abbassava la testa di fronte ai soprusi, bensì li trasformava in un’occasione di sberleffo e critica sociale.
L’irriverenza costò a Gaetanaccio anche frequenti incarcerazioni, ma nonostante questo fu sempre uno dei burattinai più chiesti e ricercati dell’epoca. Si racconta che egli presenziò anche ad una festa a Palazzo Farnese, per volere dell’ambasciatore francese: nonostante l’accordo fosse di non lasciarsi andare in sconcezze e turpiloqui troppo spinti, quando arrivò il momento dell’ingresso in sala dell’ambasciatore Gaetanaccio si lasciò sfuggire una sonora pernacchia per mezzo del suo burattino Rugantino. L’uomo si giustificò allegramente così: "Una me n'avete concessa, una ve n'ho fatta!".
Ma la sua fine fu tutt'altro che allegra: quando nel 1825 papa Leone XII proibì tutti gli spettacoli in città, Gaetanaccio fu costretto a chiedere l’elemosina per sopravvivere. Malato da tempo di tosse, morì di tubercolosi nell'Ospedale di Santo Spirito nel 1832.
Luigi Magni e il Gaetanaccio: a teatro da 40 anni
Purcinella domannava a Rugantino: “Dimme un po’ Rugantì’, ma pperchè li signori danno a bbalia li fiji?”
“Per imparaje da regazzini a ssucchià’ er sangue de la povera ggente”.
Per una curiosa ironia della sorte, lo stesso Gaetano Santangelo è divenuto nei secoli una maschera teatrale, protagonista di numerosi drammi del teatro dialettale romanesco. La “Commedia di Gaetanaccio” scritta da Luigi Magni e portata in scena per la prima volta nel 1978 da Gigi Proietti, è divenuta un classico del teatro: la Roma papalina e la povertà di Gaetanaccio si trasformano, sul palcoscenico, in una riflessione profonda sul destino degli ultimi, che utilizza la lingua dialettale con estrema poesia, quasi fosse un canto.