Carlo Calenda ha un vantaggio rispetto al Partito Democratico (lo stesso per tanti versi che ha Giuseppe Conte): non ha un dibattito interno a cui rendere conto, correnti e sensibilità a cui rispondere, franchi tiratori e bisogno di sintesi. Fa e disfa come vuole, alla fine a Renzi e i suoi va bene così.
Quando ha detto che avrebbe sostenuto volentieri Alessio D'Amato alla presidenza della Regione Lazio, piazzando la sua fiches con largo anticipo nella competizione elettorale, ha messo di fatto, fin dall'inizio, un'ipoteca sull'alleanza con il Movimento 5 Stelle. Dal canto suo il partito di Giuseppe Conte non aveva nessuna voglia di proseguire l'esperienza del campo largo nel Lazio, e in mezzo ci sono finite quelle forze di centrosinistra (a cominciare dal PD) che invece avrebbero volentieri vinto le elezioni piuttosto che guardare solo alle proprie percentuali e al loro posizionamento politico rispetto alle dinamiche nazionali.
È andato in un altro modo e ancora una volta, un po' per caso un po' per intuito politico, Calenda ha vinto la sua scommessa. E il Partito Democratico si è fatto trollare un'altra volta, ottenendo di far percepire come imposto dall'esterno il proprio candidato, e riuscendo nella non semplice impresa di non rivendicare fino in fondo la candidatura di una figura che, grazie alla gestione della pandemia ha conosciuto una certa notorietà e consenso, e che per di più ha alle sue spalle una storia ben radicata a sinistra. I dem avrebbero dovuto impararlo da quella volta che alle elezioni europee regalarono a Calenda mezzo simbolo (senza che si fosse mai pesato elettoralmente), per poi vederlo abbandonare la nave proseguendo il suo percorso politico più contro che con il PD.
Certo ci sono state le primarie sfumate, il tentativo (sincero almeno in buona parte del gruppo dirigente dem) di trovare un'intesta con i pentastellati, la ricerca di figure che potessero essere maggiormente condivise, ma alla fine l'ha spuntata Carlo Calenda, che dal giorno dopo l'investitura di Alessio D'Amato, è tornato ad occuparsi di altro, comparendo pochissimo in una campagna elettorale dove i leader nazionali hanno latitato.
Dopo aver messo la bandierina sul candidato, il condottiero dei libdem si è spostato in Lombardia, dove invece ha investito tutto sulla candidatura di Letizia Moratti nel tentativo di far funzionare lo schema che persegue da quando è entrato in politica: accaparrarsi Forza Italia, drenare voti al PD e attrarre perché no gli insofferenti della Lega meno sovranisti e salviniani.
Mentre D'Amato sul terreno tenta l'impresa di sconfiggere una destra fortissima senza i cinque stelle, Calenda è impegnato ad attaccare tutti i giorni il Partito Democratico sostenendo Letizia Moratti, mentre in Calabria è passato direttamente al governo della regione con Lega e Fratelli d'Italia grazie all'ingresso in Azione di due consiglieri della maggioranza. E a fare campagna contro la destra destra che si appresta a vincere nel Lazio non è sembrato troppo interessato, gli è bastato contribuire alle premesse della sconfitta.