Covid, turisti e ristoranti: così la camorra vuole “mangiarsi” la Capitale
Di Rosaria Capacchione
Roma, zona Montecitorio, qualche anno fa (ma potrebbe essere anche ieri mattina). Ristorantino turistico, frequentato anche da parlamentari. Prezzi modici, come la qualità. “Signora, abbiamo un’ottima mozzarella di bufala, è arrivata stamattina da Caserta”, dice la direttrice di sala. Di quale caseificio? Arriva l’incarto, con un marchio sconosciuto. Accertare che è il nome di un caseificio fallito da quasi dieci anni, evidentemente trasformato in cartiera, è roba di pochi minuti. Una settimana dopo il ristorantino chiude “per inventario”. La direttrice si materializza in un locale simile, zona Pantheon. Tempo qualche settimana e vengono sequestrati tutti: era roba del clan Contini. Il caseificio, invece, era riconducibile al clan Iovine, che sul litorale romano ha una delle sue basi più antiche e agguerrite.
Mesi dopo, nuove insegne, stessa offerta dozzinale, nuove chiusure tecniche, nuovi sequestri: era roba di Michele Senese, il plenipotenziario del clan Moccia nella Capitale. Oggi, 29 settembre, altri ristorati sequestrati: stesso quartiere, stessa clientela mordi e fuggi, insegne rinnovate: è roba di Angelo e Luigi Moccia, gli eredi del clan camorristico (che non esiste, dicono loro) più potente del centro-sud.
Tutto sul food, un pozzo senza fondo che si alimenta dei soldi dei turisti e delle risorse in nero che arrivano dagli altri rami d’azienda: usura ed estorsione. E in tempi di Covid, bar e ristoranti sono anche il bene rifugio delle organizzazioni criminali che stanno monopolizzando le strade della movida: a Roma, Napoli, Milano, Torino. Soppiantano i locali che hanno chiuso a causa della crisi, si impongono sulla piazza e offrono lavoro. Nell’ultima indagine della Dda di Roma è raccontato uno spaccato significativo dell’ormai consolidata ultima frontiera del riciclaggio. Ma non è il solo. Secondo La Coldiretti, sono ormai cinquemila, in tutta Italia, i locali dell’agroalimentare controllati dalle organizzazioni mafiose. Un dato ancora più allarmante alla luce della crisi profonda del comparto, che si avvia a un crac da 34 miliardi di euro. Eppure, anche in tempi di Covid, l’offerta è in aumento: tutte le botteghe che dopo il lockdown non hanno riaperto si stanno trasformando, soprattutto in Lazio e Campania, in baretti, paninoteche, pizzerie, ristoranti. Per rendersene conto è sufficiente una veloce passeggiata in una qualunque delle nostre città.
Ma non è tutto riciclaggio. Anzi, non è solo riciclaggio. Soprattutto quando ci si allontana dalla qualità mediocre dei locali per turisti e si inizia a parlare di alta ristorazione. Vale per tutti l’esempio della parabola di Gianni Micalusi, proprietario di una pescheria a Terracina, finito nella mani – causa debiti – di Michele Senese e della mala capitolina, diventato la loro interfaccia imprenditoriale attraverso la gestione di “Assunta Madre”, uno dei templi della cucina di qualità a Roma (e poi a Milano, Roma, Costa Smeralda). Che da un paio di anni è stato rilevato da altre persone estranee alle inchieste che hanno riguardato la famiglia Micalusi. Ad agosto era al “Sottovento”, in Sardegna. Fino a quando il Covid non ha colpito pure lui. Ma ormai ridotto quasi a un impiegato. L’usura, dunque, come grimaldello per entrare nel mercato dell’alta qualità, acquisendo prima piccole partecipazioni azionarie in cambio di parte del debito primitivo, poi l’intera proprietà lasciando alla vittima (che via via si trasforma in complice di altre attività fraudolente, dalle intestazioni fittizie all’evasione fiscale) solo la titolarità formale. Una novità? Nemmeno per idea, è lo schema classico dell’usura di sistema, quella attraverso cui la criminalità organizzata, a ogni latitudine, fa girare i suoi soldi: senza rischio d’imprese e con profitti massimi. Una traccia è contenuta, ancora una volta, nell’inchiesta romana sui fratelli Moccia, ed è quella che vede quale vittima il figlio di Gigi D’Alessio, Claudio. Non di food si parla, ma di musica. Il canovaccio e il metodo, però, sono gli stessi. "Se tu non blocchi un attimo la situazione e dai il tempo di respirare e di organizzarsi, qui non si andrà mai da nessuna parte, e quindi dico… cioè, non è che uno va a rubare la mattina che all'improvviso io ti posso chiudere. Serve un attimo di respiro fammi lavorare, fammi fare e poi si stabilisce un piano di rientro".
Disorienta la facilità con cui lo schema si ripete, immutato, da decenni. E con gli stessi personaggi quali registi: la banda della Magliana (con Enrico Nicoletti) e i suoi epigoni, Michele Senese e la famiglia Moccia, i Casalesi di Iovine, Contini e Mazzarella. Senza cassa comune, ritiene la Procura antimafia di Roma, ma senza intralciarsi. Servendosi, comunque, delle stesse agenzie di servizio, per così dire, capaci di mettere a disposizione società decotte (tramite alcuni commercialisti), società fallite (grazie agli agganci giusti nelle sezioni fallimentari dei Tribunali), informazioni riservate (in virtù di contatti con investigatori e agenti segreti ambigui, collusi, corrotti), calunnie e false denunce (con la complicità di depistatori di professione). Un’altra traccia è contenuta in un’altra recentissima inchiesta della Dda di Roma e della questura di Latina: carte nelle quali si rincorrono i nomi di faccendieri collegati a camorra, mafia e ‘ndrangheta finiti in decine di altre indagini, quasi tutte finite nel dimenticatoio. A voler dare un nome a queste agenzie, “terzo livello” sarebbe perfetto: quello di cui tanto si parla e che nessuno vede.