Di Nella Converti
«Chissà come hai fatto, pur crescendo a Tor Bella Monaca, a venir su così». Il «così» sottintende tutta una serie di pericoli scampati, a tratti e di soppiatto evocati, quando ci si rivolge a noi, “eroi” sfuggiti alla droga, alle mafie, alla delinquenza, alla dispersione scolastica, al dress code da ragazze e ragazzi di periferia disegnato apposta per noi.
A pochi passa per la testa che l’eccezione sia la regola, e a volte, ad esser maliziosi, verrebbe da pensare che dalle parti del centro non si abbia molta voglia di cambiare il volto di questa cartolina della città, fatta di scale di grigio e di scenografie pazzesche per un set cinematografico.
Da anni provo, nel mio piccolo, a cambiare questo modo di approcciare culturalmente al cosiddetto tema delle periferie. Sarà che quello che per tanti è un tema, per me è lo spazio fisico dentro cui si concretizza la mia attività politica e la mia vita.
Uno spazio che molto spesso viene descritto dagli osservatori come abitato da forze del male e forze del bene, da chi costruisce e da chi distrugge, senza lasciare in mezzo alcuna possibilità di redenzione. È al contrario uno spazio complesso, sfumato, e per decifrarlo tocca abbandonare questa narrazione stereotipata, lasciandosi guidare dai percorsi, dalle persone, dal loro quotidiano.
Maria non è vedova ma è come se lo fosse. Suo marito è finito in galera per spaccio e aggressione a mano armata. Sta crescendo da sola un figlio e ha giurato a sé stessa che lo avrebbe salvato dalle stesse sorti del padre.
Lavora come signora delle pulizie, a nero. Vivono col reddito di cittadinanza e quel po’ in più che lei mette insieme senza dichiararlo. È riuscita a far diplomare il ragazzo, mi dice «Nella, manco io so come ho fatto, me lo tirano per la giacchetta di continuo. Sta tutto il giorno a casa, passa troppo tempo con quelli, io ci speravo che al centro per l’impiego lo chiamassero a lavorare, almeno so che per qualche ora al giorno non rischia guai».
Beh – le dico – se prendete il reddito, devono fargli delle offerte di lavoro o altrimenti offrirgli dei percorsi di formazione, un tirocinio. Non funziona così? Maria sorride. «Ma quale percorsi, Nella, per carità, i soldi del reddito arrivano pure puntuali ogni mese, ma metti una firma e poi nessuno ti fa più sapere niente. A noi i soldi ci servono, ma se Marco me lo lasciano senza lavoro, io da sola sta guerra la perdo. Chi se lo piglia uno col padre in galera?».
Margherita vive al quinto piano di una casa popolare. Lei, il marito e i ragazzini da un lato. La mamma disabile grave, di fronte, con lei che la accudisce tutto il giorno. Famiglia di lavoratori, che fanno un gran fatica a gestire da soli un carico di cura così pesante. Come nelle migliori famiglie, Teresa ha anche un fratello, che vive a Viterbo, e che passa da quelle parti solo per fare un saluto ogni tanto.
Nella torre dove vivono c’è un cortile. In questo cortile si spaccia, e le vedette girano armate. Non c’è bisogno che i residenti denuncino perché si sappia, o organizzino chissà quale protesta. A sapere lo sanno già tutte le istituzioni tenute a saperlo, e quelli che proprio non si rassegnano all’immobilismo, si condannano ad una vita di rappresaglie e vendette.
È il caso proprio di Margherita che ha osato più e più volte scrivere al comune per chiedere il ripristino dell’ascensore. Cinque piani a piedi sono tanti, e Margherita ha dovuto disdire decine di visite mediche, perché non poteva portare giù la madre in carrozzella. L’ascensore serve per il carico e scarico della droga. Lo aggiusti una volta, lo rompono il giorno dopo. Lo riaggiusti, se ti va bene, e lo rompono di nuovo. Alla fine vincono loro e resti sequestrato in casa. Alla fine chiederai il loro aiuto.
Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese, diceva De André, la condanna è dietro l’angolo. Ma io vi sfido a dividere il bene e il male da queste due storie prese a caso tra tante. E vi chiedo se secondo voi è ancora possibile giudicare con toni severi una mamma che lavora in nero, un ragazzo dalle brutte compagnie, o se è ancora giusto che il silenzio di un condominio venga chiamato omertà.
Tutto questo c’entra con la scelta di candidarmi al consiglio comunale. C’entra con quella volta che insieme ad un gruppo di compagne e compagni abbiamo scelto di riaprire una sezione del Pd a via dell’Archeologia, una delle strade più difficili di Tor Bella Monaca, e c’entra con la battaglia a volte anche aspra che portiamo avanti insieme anche nello stesso Pd per provare a cambiarne lo sguardo. C’entra col fatto che provo a essere al fianco di queste famiglie, a volte riuscendo a essere più forti insieme e portare a casa qualche risultato, altre condividendo il senso di impotenza più profondo, e la rabbia che non dà tregua e ti costringe a non mollare la presa.
Essere perbene e onesti, in alcuni casi, è una fortuna del destino. In altri una scelta precisa, che costa sacrifici e lotta quotidiana.
In consiglio comunale queste storie vorrei arrivassero insieme a me. Possibilmente non solo per raccontarle, ma per provare a cambiarle, insieme