“Che te rode, ‘a piazzetta o er vicolo der Moro?”: perché in dialetto romanesco si dice così?
La parolaccia è parte integrante della tradizione linguistica romanesca, e offese ed insulti sono musica quotidiana che, forte proprio della sua colloquialità ed immediatezza, in molti casi fa dimenticare ogni connotazione negativa. Ma l’arguta fantasia del popolo romano ha anche saputo inventare spiritosi giri di parole: come quello, molto particolare, usato per tradurre la meno elegante espressione legata ad un fastidiosissimo (e figurato) prurito in una parte ben precisa del corpo. “Che te rode, ‘a piazzetta o er vicolo der Moro?” è una delle frasi più curiose del dialetto romanesco. Ma qual è la sua storia, e da dove deriva?
Chiedere a qualcuno “che te rode, ‘a piazzetta o er vicolo der Moro?” è un modo di certo più elegante per comunicare lo stesso identico concetto espresso, solitamente, da ben altre parole. Si tratta di una frase che ha una storia molto lunga, che risale almeno all'Ottocento: benché le origini di questo modo di dire siano pressoché sconosciute, conosciamo perfettamente uno dei primi utilizzi che ne sono stati fatti. Fu il poeta Giggi Zanazzo, in una delle sue numerose opere dialettali, a usare questa frase: si trova nel testo de “Li Galli ovvero: La riscossa de Cammillo”, una poesia pubblicata nel 1889 sul “Rugantino”, il celebre giornale di Roma tutto scritto interamente in dialetto.
– E chi sei? – So' Patrizio, senatore romano come tutti ‘sti coloro. Cosa ti rode a te, vil seduttore, o la piazzetta o ir vicolo der Moro? E se ad ugual tenzone vuoi sfidarmi nun roppe li minchioni, sceje l'armi! –
Via del Moro: il cuore popolare di Trastevere
Si potrebbe pensare che questa frase sia soltanto una delle tante espressioni metaforiche proprie della lingua dialettale di Roma. Ma quando si parla di dialetto nulla è lasciato al caso, e ad ogni parola corrisponde una storia: quella del “prurito” a vicolo del Moro inizia a Trastevere. È infatti proprio qui, nel cuore di uno dei rioni più antichi di Roma, fra piazza Sant'Apollonia e piazza Trilussa, che si trova la celebre strada che ha ispirato il curioso modo di dire.
Si tratta di una piccola viuzza costellata di edifici storici, poco luminosa durante il giorno ma estremamente caratteristica: il suo nome sembra derivi da un antico Caffè situato in un angolo della strada, il “Caffè del Moro” appunto. La sua notorietà è stata grande, nei secoli, e per svariate ragioni. La meno nota è quella che vide protagonista Romeo Ottaviani: nel 1910 l’uomo, conosciuto col soprannome di “er Tinèa” ed entrato nell’immaginario popolare come uno dei più coraggiosi e potenti “bulli” della città, venne assassinato proprio in questa strada secondaria mentre passeggiava con sua moglie.
Subito dopo l’efferato delitto via del Moro divenne celebre grazie ad Americo Giuliani e alla sua opera “Er fattaccio”, ambientata proprio della piccola strada trasteverina e scritta nel 1911. La fama di questo luogo ha attraversato numerosi palcoscenici di Roma e non solo, grazie ai numerosi adattamenti teatrali e cinematografici ispirati al testo di Giuliani, ma la frase di cui è protagonista gioca in realtà proprio su una sua, passata, scarsa notorietà: in epoche più antiche doveva essere una stradina buia, poco trafficata, secondaria e, forse, anche molto pericolosa. La sua irrilevanza all'interno della geografia della città forse ben si adattava alla richiesta, sarcastica e provocatoria, di identificazione del tipo di "prurito" provato.