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A Roma con i Medici Senza Frontiere che curano le donne dai traumi di guerre, abusi e discriminazione

Viaggio nel cuore del progetto che nei quartieri della periferia romana sostiene centinaia di donne, che altrimenti vi sarebbero escluse, nell’accesso alle cure del Servizio Sanitario Nazionale e ai servizi del welfare territoriale.
A cura di Gaetano De Monte
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Curano le ferite sociali di donne come Adenike (nome di fantasia) che è una ragazza eritrea di poco più di 20 anni e vive in un popoloso quartiere di Roma in cui i servizi sanitari, ospedalieri e strumenti di welfare di comunità non mancano, ma a cui lei non aveva mai potuto accedere, fino a qualche settimana fa, nonostante una gravidanza in corso. Perché non aveva la residenza nella Capitale e così non avrebbe avuto accesso al Servizio Sanitario Nazionale.

Aiutano le donne, specialmente straniere, ad uscire dalla loro condizione di isolamento, il team al femminile di Medici Senza Frontiere che ho incontrato più volte nelle ultime settimane, mentre nelle loro attività di promozione alla salute accompagnavano le donne agli ambulatori, ai consultori, ai servizi di welfare territoriali di quartieri della periferia est come Prenestino, San Basilio e Quarticciolo. Ma anche mentre suggerivano alle stesse che incontravano di riscattarsi: dai matrimoni forzati, dall’assoggettamento lavorativo, dalla dipendenza dall’uomo. Alcune di loro lo hanno fatto, riprendendosi così la propria vita.

«Le barriere, tuttavia, sono diverse. Quello che sta emergendo dalle nostre attività è che molte donne non hanno nemmeno il tempo di sottoporsi a un controllo medico a causa dei comportamenti dei loro datori di lavoro», riferisce Eleonora del Baglivo, responsabile delle attività di promozione alla salute. Curano le ferite sociali di donne come Adenike (nome di fantasia) che è una ragazza eritrea di poco più di 20 anni e vive in un popoloso quartiere di Roma in cui i servizi sanitari, ospedalieri e strumenti di welfare di comunità non mancano, ma a cui lei non aveva mai potuto accedere, fino a qualche settimana fa, nonostante una gravidanza in corso. Perché non aveva la residenza nella Capitale e così non avrebbe avuto accesso al Servizio Sanitario Nazionale.

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Sono assistenti sociali, psicologhe, mediatrici culturali, promotrici della salute, ostetriche. Sono le professioniste del progetto Salute Integrata Donne di Medici Senza Frontiere, che hanno raccontato a Fanpage di aver incontrato la giovane donna eritrea mentre era già al terzo mese di gravidanza e non aveva fatto mai un controllo ginecologico.

«Da aprile 2021 ad oggi abbiamo raggiunto 1053 persone in attività di promozione della salute, di gruppo o individuali, aiutandole a superare le barriere nell’accesso ai servizi, amministrative, linguistico-culturali e anche quelle legate alle restrizioni da Covid-19», spiega la coordinatrice del progetto, Lucia Borruso: «le principali richieste di aiuto che ci sono arrivate sono legate alla salute sessuale e riproduttiva, dalla contraccezione alla visita ginecologica di routine, dalla gravidanza fino allo screening per la prevenzione del tumore del collo dell’utero e del seno». E poi prosegue: «tra di loro vi sono anche otto donne sopravvissute a violenza di genere che sono state prese in carico e accompagnate ai servizi del territorio. La maggior parte sono straniere. Vengono da Bangladesh, Colombia, Ecuador, Egitto, El Salvador, Eritrea, un po’ da tutto il mondo e, proprio per questo, vengono sostenute nelle principali necessità socio-legali, quali la registrazione al servizio sanitario nazionale, il rinnovo del permesso di soggiorno, la residenza, l’adesione alla sanatoria».

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Un team al femminile

È un team di professioniste completamente al femminile quello che Borruso coordina e che ho incontrato più volte nelle ultime settimane, mentre assicuravano tutela socio-sanitaria ad altre donne, specialmente straniere, che vivono nelle borgate e nei quartieri della zona est della Capitale, al Collatino, al Prenestino, a San Basilio e al Quarticciolo. È in uno dei consultori di questi luoghi così densamente abitati da una umanità spesso povera e fragile che Adenike, una giovane donna eritrea, si è sottoposta al suo primo screening sanitario grazie all’interessamento di MSF e al progetto attivo da un anno che è implementato in partnership con l’Azienda Sanitaria Locale Roma 2 «al fine di rafforzare i percorsi di inclusione delle donne straniere e facilitarne così l’accesso ai servizi sanitari e ai consultori». Precisa Angelina Perri, una delle ostetriche del team: «grazie al nostro intervento la donna ha scoperto l’esistenza di una grave patologia al cordone ombelicale che se non fosse stata diagnosticata in tempo avrebbe potuto portare al decesso della bambina e forse anche della madre». Diagnosi confermata da Kalipso Trevisol, l’altra ostetrica del gruppo.

Diritto alle cure 

«Spesso accade che a causa dell’assenza di iscrizione anagrafica molte donne non abbiano accesso al sistema sanitario, e così anche i loro bambini. Storie di questo tipo ne abbiamo riscontrate, ma anche risolte, di diverse», dice l’assistente sociale, Rosa Paolella: «in realtà, alcune direttive delle Asl precisano che si ha diritto ad accedere al servizio laddove sia presente una semplice autocertificazione di domicilio. Purtroppo, però, avviene che ci sia molta discrezionalità da parte di alcuni uffici, che ci sia molta differenza, cioè, tra la norma e la prassi, così molte autodichiarazioni non vengono accettate». Continua Paolella: «una parte importante del nostro intervento è proprio quello relativo all’abbattimento delle barriere burocratiche esistenti tra cittadini stranieri e amministrazioni pubbliche. In questo senso, il servizio sanitario nazionale presenta modalità differenti di accesso, a seconda della situazione giuridica in cui si trova una persona straniera. Ci sono alcuni casi in cui non è per nulla garantito, come per chi ha un permesso di soggiorno scaduto».

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Barriere multiple

«Le barriere sono diverse. Quello che sta emergendo dalle nostre attività è che molte donne non hanno nemmeno il tempo di sottoporsi a un controllo medico a causa dei comportamenti dei loro datori di lavoro», riferisce Eleonora del Baglivo, responsabile delle attività di promozione alla salute: «perché spesso si tratta di persone che non hanno un contratto di lavoro regolare e dunque sono sottoposte a ricatto maggiore; a queste problematiche si aggiungono, poi, i ritardi nella regolarizzazione degli stranieri prevista dall’ultima sanatoria, che le pongono in una sorta di limbo, in una sospensione della propria condizione esistenziale».

Sara Giorgi, la psicologa del gruppo, aggiunge: «sono le così dette lavoratrici badanti le più penalizzate, molte di loro sono sudamericane, vengono da Ecuador, El Salvador, Perù, e non hanno la possibilità di denunciare la propria condizione di assoggettamento, perché oltre l’impiego perderebbero anche la possibilità di risiedere nella casa dove vivono e lavorano. Abbiamo anche incontrato vicende di donne che in un primo momento non potevano vaccinarsi per la loro condizione giuridica di invisibilità e che hanno perso subito il lavoro quando è entrato in vigore il green pass».

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Le mediatrici

E, tuttavia, il cuore pulsante del progetto di Medici Senza Frontiere da qualche mese in atto nella periferia est della Capitale rimane la rimozione delle barriere culturali e linguistiche per poter fare accedere le donne, specialmente straniere e, in maniera adeguata, ai servizi sociali e sanitari. Per questo, è fondamentale il ruolo delle mediatrici.

Maryem Alakhram, di nazionalità egiziana, è una di loro. La donna vive in Italia da diversi anni e qui non è mai riuscita a convertire il suo titolo di studio, la laurea in farmacia, a causa delle barriere burocratiche, certo, ma anche perché non ha avuto il tempo di pensarci, perché doveva prendersi cura della famiglia e trovare allo stesso tempo un impiego remunerativo. Così ora Maryem, quando la incontro in una delle sedi romane dell’organizzazione che quest’anno compie 50 anni di attività, MSF, appunto, dice di sentirsi utile lavorando a questo progetto, aiutando le donne di nazionalità araba che vivono nei quartieri della periferia est della Capitale a superare le barriere linguistiche e culturali e permetterne così l’integrazione sociale.

Rudaba Zaman Syeda, Raya, invece, un’altra delle mediatrici, ha una storia diversa. È nata a Dacca, la capitale del Bangladesh. Aveva 6 anni quando insieme alla madre nel 1995 è arrivata alla stazione Termini con un visto turistico, raggiungendo il padre che già viveva qui in Italia. Ora Raya di anni ne ha 33 e, tra le altre cose, possiede una laurea in chimica conseguita all’Università La Sapienza. E ha una vocazione per la mediazione culturale.

«Da subito la mia famiglia si è integrata nel tessuto cittadino. Mia madre ha cominciato da subito a frequentare i corsi di italiano. Nel quartiere dove siamo andati a vivere, Tor Pignattara, eravamo tra le pochissime famiglie straniere, mentre oggi sono la maggioranza e, quando ho cominciato la scuola elementare, io ero l’unica che veniva da un’altra nazione». Racconta Raya: «sono impegnata da sei mesi in questo progetto di MSF ed anche io mi sento particolarmente utile, perché in tal modo aiuto molte donne che provengono da Bangladesh, India, Pakistan, ad accedere a servizi sociali che altrimenti non potrebbero raggiungere, soprattutto, a causa dell’isolamento in cui alcune di loro dicono di trovarsi, causato dalla mancata conoscenza della lingua italiana, ma anche dalla dipendenza dal proprio marito».

Riscatto 

Cura le ferite sociali, ma aiuta anche le donne, specialmente straniere, ad uscire dalla loro condizione di isolamento, dunque, il team tutto al femminile di Medici Senza Frontiere che ho incontrato più volte a Roma nelle ultime settimane, mentre nelle loro attività di promozione alla salute accompagnavano le donne agli ambulatori, ai consultori, ai servizi di welfare territoriali.  Ma anche mentre suggerivano alle stesse che incontravano di riscattarsi: dai matrimoni forzati, dall’assoggettamento lavorativo, dalla dipendenza dall’uomo. Alcune di loro lo hanno fatto, riprendendosi così la propria vita.

Mariama, invece, che è una giovane donna di 30 anni che viene dalla Costa D’Avorio, si sta riprendendo lentamente il proprio corpo, dopo le violenze subite. Proprio grazie alle attività di promozione alla salute di Medici Senza Frontiere. È accaduto infatti che qualche settimana l’equipe di MSF l’aveva intercettata ed accompagnata in uno dei consultori della Asl Roma 2 dove è attivo il progetto, e in cui Mariama ha potuto sottoporsi a visita ginecologica, poiché lamentava alcune lacerazioni interne che le facevano provare forti dolori e un senso di disagio. Dopo il colloquio avuto con l’assistente sociale e l’ostetrica, è emerso che questa sensazione è anche una conseguenza psicologica di violenze efferate e sistematiche subite e mai elaborate. Così ora la donna originaria della Costa D’Avorio sta curando le ferite psico-fisiche in un centro specializzato. A curarne le ferite sociali, invece, ci avevano già pensato qualche settimana fa un gruppo di professioniste tutte donne che si aggira tra le borgate e i quartieri della Capitale.

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