Se la ripresa non la si agguanta ora, si rischia di non agguantarla più: come notano gli analisti di Credit Suisse commentando i dati sull’andamento del settore manifatturiero in Europa ed in Italia in aprile, è stato proprio dal Bel Paese che sono giunti i segnali più convincenti di ripresa del settore. Una ripresa, sottolineano gli esperti, dovuta tanto all’aumento della produzione quanto degli ordini e dell’occupazione ed è questa un segnale importante visto che a livello assoluto la disoccupazione appare ancora alta sia in tutta l’Eurozona, dove si è confermata all’11,8% a fine marzo, sia in Italia, dove è salita al 12,7% secondo i dati definitivi di Eurostat.
Come notano gli esperti svizzeri analizzando le componenti dell’indice Pmi dei direttori acquisti del comparto manifatturiero, in Italia non si vedevano livelli simili dal secondo semestre 2011. Non c’è per la verità di che strapparsi i capelli, visto il crollo che si era verificato nel corso del 2009, ma è forse il segnale, commentano gli esperti, dei primi benefici delle misure pro-ripresa varate dal governo (benefici che potrebbero aumentare dopo che, da questo mese, si avrà una sia pure minima riduzione del cuneo fiscale che metterà nelle tasche di una parte dei lavoratori dipendenti italiani fino a 80 euro al mese). E “dato che le scorte sono nuovamente calate in aprile”, il recupero segnato dalla produzione “pare guidato dalla domanda finale piuttosto che da una ricostituzione delle scorte” che in Italia restano anzi ad uno dei livelli più modesti di tutta la Ue.
Come fare a irrobustire questo primo fragile germoglio di ripresa dovrebbe essere il tema di discussione di tutto il teatrino politico ed economico italiano, ma complice l’avvicinarsi della scadenza elettorale europea come spesso accade non è così ed ognuno prova ad alzare i toni per conquistare un’attenzione sempre più dispersa e distratta (si teme infatti che l’astensionismo possa toccare nuovi record a riprova della crescente disillusione degli italiani nell’intera classe politica, di governo o di opposizione che sia, nessun movimento escluso). Peccato, perché ci sarebbe quanto meno da chiedersi se proprio dall’Europa possa arrivare e come una mano all’Italia.
Esclusa l’ipotesi di una “uscita dall’euro”, che non è neppure prevista dai trattati (non par caso o disattenzione ma volutamente, dato che ci si è voluto “bruciare i ponti alle spalle” per evitare tentazioni che avevano già condannato a morte precedenti tentativi di unione monetaria come lo Sme) e che comunque rischierebbe di generare una recessione violentissima nel caso di una svalutazione importante della “nuova lira” rispetto all’euro (senza la quale peraltro la manovra “shock” non avrebbe alcun senso), come ben hanno sperimentato sulla propria pelle gli argentini a differenza dei tanti “cantori” no euro, cosa potrebbe fare la Ue e cosa la Bce?
L’Unione potrebbe e dovrebbe cercare di ridurre gli scompensi macroeconomici che tuttora indirizzano i flussi di capitali verso il Nord Europa e non verso il Sud. E' chiaramente una decisione politica perchè significa far crescere meno alcuni e più altri e la cosa potrebbe avvenire a medio termine con l’avvio di un importante programma di grandi opere infrastrutturali europee, posto che da noi o in altri stati non scoppi ogni volta una polemica per ogni autostrada, linea ferroviaria, porto, oleodotto, dorsale internet o altro che si debba costruire per agevolare il trasferimento di beni e servizi. E posto che non ci si impicchi a una difesa meramente nominale della “italianità” delle nostre produzioni di beni e servizi eccellenti (e ce ne sono ancora molte), capendo una volta per tutte che le produzioni medesime si difendono con la qualità del lavoro, dell’organizzazione produttiva e del credito e non meramente con “cordate” e “patti parasociali” che tentino di cristallizzare la proprietà di fatto limitando solo la concorrenza in uno o più settori a spese dei contribuenti. E che si esca da quei limiti, culturali ancora prima e più significativamente che strutturali, che hanno impedito alle imprese italiane di investire in innovazione e sfruttare a proprio vantaggio i vantaggi in termini di produttività legati alla grande ondata di informatizzazione di questi ultimi decenni.
La Bce dal canto suo può e sembra intenzionata a lanciare un programma di “quantitative easing”, ossia di acquisto di carta finanziaria, in particolare di “Asset backed Securities” (Abs), vale a dire crediti cartolarizzaati. Ora: la Bce in realtà di questo tipo di carta finanziaria ne ha già virtualmente piene le casse, visto che con 324,8 miliardi di euro di titoli “collaterali” (ossia dati a garanzia di prestiti forniti dalla Bce alle banche europee) è già ora de facto il maggior detentore europeo di tali strumenti. Acquistarne altri mille potrà portare benefici e quali? Dipende: in un recente post l’economista David Beckworth fa un esempio per spiegare a cosa potrebbe servire il denaro che la Bce inietterebbe nel mercato in cambio dei titoli, che provo a sintetizzare a mia volta.
Se un turista (Mario Draghi?) capitasse un giorno in una cittadina la cui economia è da tempo depressa e dove di denaro ne gira davvero poco, chiedesse una stanza nell’albergo principale e mettesse una caparra di 100 (o mille se preferite) euro sul bancone intanto che gli fanno vedere la stanza, e se l’albergatore senza farsene accorgere prendesse questa banconota e pagasse un suo dipendente a cui ancora doveva dei soldi; questi prendesse la banconota e ci pagasse il macellaio che gli aveva fatto credito finché non avesse avuto la paga; se il macellaio rimborsasse all’albergatore un pernottamento effettuato tempo addietro e non saldato perché in tempi di crisi la liquidità scarseggia. A quel punto l’albergatore potrebbe rimettere la stessa banconota nuovamente sul bancone e se anche il turista tornasse indietro e dicesse che tutto sommato le stanze non gli piacciono e preferisce dormire altrove, riprendendosi la banconota, cosa sarebbe cambiato? Che in città tutti avrebbero meno debiti con tutti e guarderebbero con maggiore ottimismo al futuro.
Bell’esempio, ma ci sono alcuni problemi lungo la strada: anzitutto il “turista” Draghi deve decidere dove andare a villeggiare e in una unione multinazionale questo potrebbe dar luogo a qualche controversia (banalmente: se pagasse il soggiorno ad un albergo italiano si risentirebbero gli albergatori spagnoli, francesi o finanche tedeschi, se soggiornasse a rotazione potrebbero non bastargli i soldi); poi deve poter pagare l’albergatore, ossia fuor di metafora deve poter fare arrivare il credito alle imprese e non alle banche, che altrimenti rischierebbero di essere le uniche beneficiarie dell’operazione. Poi la velocità con cui il denaro passasse di mano in mano dovrebbe essere sufficientemente rapida perché nessuno si accorga del “gioco di prestigio”, in particolare agenzie di rating e “bond vigilantes” che fin troppo efficientemente hanno invece svolto la propria mansione durante la crisi del debito sovrano (per quanto tardivamente rispetto al reale deteriorarsi del merito di credito dei singoli stati aderenti nei primi anni dalla nascita dell’euro).
Conclusione, unica possibile: l’economia è una scienza sociale, non una scienza esatta. Possiamo cercare di analizzare i segnali e imparare per tentativi ed errori, ma non saremo mai in grado di fare previsioni sul futuro sulla base del metodo scientifico. Possiamo discutere all’infinito se sia meglio per un paese un modello di sviluppo o un altro, una valuta o un’altra, un’unione di libero scambio o politica o fiscale o un’altra. Ma se non impareremo a collaborare facento ciascuno la propria parte (governi, banche, imprese, lavoratori, parti sociali) e se non torneremo ad avere il coraggio e la possibilità di intraprendere (e finanche di sognare e di fallire), non avremo mai qualcosa in più di un grigio presente e di continue preoccupazioni per il futuro. Speriamo bene.