L'approdo del ddl Renzi – Boschi nell'Aula di Palazzo Madama è previsto per il 3 luglio, ma la prima, decisiva, battaglia è già in corso nella Commissione Affari Costituzionali con la votazione sui subemendamenti e la valutazione delle oltre 700 pagine di emendamenti (alcuni al limite del surreale, che probabilmente rientrano nel quadro di una pratica ostruzionistica delle opposizioni). E la sensazione, nonostante la rapidità con la quale stanno procedendo i lavori in Commissione, è che il progetto di riforma del Senato, fortemente caldeggiato dal ministro Boschi, abbia bisogno di ulteriori revisioni per superare le forche caudine dell'Aula.
Al momento l'impostazione del disegno di legge costituzionale "Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione" è abbastanza chiara: una Camera dei deputati con 630 membri, unica titolare del rapporto di fiducia con il Governo, con funzioni di indirizzo, controllo e legiferazione; un Senato della Repubblica di 100 membri, composto da Sindaci, consiglieri regionali e Governatori (più una piccola quota indicata dal Capo dello Stato), che rappresenta le istituzioni territoriali, esercita funzioni di "raccordo", "concorre nei casi e secondo modalità stabilite dalla Costituzione" alla funzione legislativa e controlla e valuta la politica (e le nomine) del Governo.
Le perplessità di fronte a tale impostazione sono note e riguardano non solo il carattere "non elettivo" dei membri del Senato (questione su cui ci sarà battaglia in Aula e non sono da escludere sorprese legate ad una sorta di nuova maggioranza trasversale, considerando il numero dei dissidenti interni a Pd e Forza Italia). Al centro della polemica politica sono infatti finite le questioni dell'immunità, dell'elezione del capo dello Stato, della "sopravvivenza" del Senato in questa legislatura e della mancata riduzione del numero dei deputati.
Sull'immunità il discorso è tutto sommato semplice: da più parti si ritiene ancora efficace e “giustificato” tale istituto (ricordiamo che all’Aula attiene il voto, dopo l’iter in Giunta, per quel che concerne l’esistenza o meno del fumus persecutionis) e allo stesso tempo se ne ritiene fondata la riproposizione proprio perché nella riforma si affidano al Senato funzioni essenziali di controllo, gestione ed indirizzo. Ora, si tratta di capire "chi" ci metterà la faccia e sosterrà apertamente tale linea.
Per quel che concerne i dubbi relativi al legame fra la composizione del Parlamento e l'elezione del Presidente della Repubblica, il discorso è invece più complesso: in questo caso, infatti, è evidente uno "sbilanciamento" in favore della Camera dei deputati, con il rischio di distorsioni derivanti dai rapporti di forza con partiti e Governo. Scrive Claudio Sardo su L'Unità: "Se il principio-guida dell’Italicum (al di là dei vari aspetti che vanno cambiati, a partire dalle indigeribili liste bloccate) è assegnare la maggioranza della Camera politica, quella che esprime la fiducia al governo, a uno solo dei tre poli (o dei tre partiti principali), non è possibile che quella stessa maggioranza si impadronisca del presidente della Repubblica grazie al premio di maggioranza. Non è accettabile che il premio, concepito per assicurare stabilità al governo, risulti determinante anche per l’elezione del Capo dello Stato. Questo altererebbe il ruolo di garanzia del presidente. E cambierebbe le dinamiche della sua elezione".
Per quel che riguarda i "costi della politica", poi, quello della Boschi sembra più un palliativo che altro. Dai nostri calcoli, la somma complessivamente risparmiata dal modello prospettato in questi giorni non supera i 100 milioni di euro l'anno (qui il report dettagliato): una cifra inferiore a quella che si risparmierebbe se ad esempio passasse la proposta della minoranza Pd che conserva l'elettività dei senatori e riduce complessivamente il numero dei parlamentari (è chiaro, non è solo questione di costi…ma se è lo stesso Governo a presentarla in questo modo, la critica è più che lecita).
C'è poi un altro aspetto, sottolineato da Pippo Civati in un breve post sul suo blog: "Se il Senato sarà approvato così, diciamo entro il 2015, in una versione che non prevede più l’elezione diretta dei senatori, ma una nomina di secondo livello, da parte dei consiglieri regionali, potrebbero capitare alcune cose non proprio banali. La prima delle quali è che il Senato potrebbe essere sciolto dal Presidente della Repubblica (quello vecchio o quella nuova) e il governo potrebbe andare avanti fino al 2018 con la fiducia di una Camera sola, come previsto dalla nuova riforma, ma con i voti vecchi del Porcellum". Una obiezione alla quale possono essere sommate tutte le critiche sui limiti di un "bicameralismo monco", sul meccanismo della "non elettività" dei senatori, sui pericoli di un Senato come "dopolavoro per Sindaci e consiglieri regionali", nonché sul combinato Italicum – riforma del Senato, che potrebbe garantire sì la governabilità, ma con un rischio, nemmeno troppo lontano, di una torsione autoritaria.
Infine, c'è un aspetto di non poco conto: l'ingerenza del Governo nel percorso di riscrittura della Costituzione. Il disegno di legge costituzionale porta la firma di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, questo è noto; così come è evidente la centralità del ddl nel percorso renziano (e non è un caso che sulla riforma del Senato il Governo stia investendo molto, forse troppo). Una scelta che non può però convincere appieno, proprio perché, malgrado "l'apertura" di Renzi alle altre forze politiche, si tratta in ogni caso di una forzatura, che non contribuisce a creare quel "clima costituente" necessario per intervenire sulla Carta. E, per dirla con Walter Tocci, "il potere esecutivo deve tacere quando il potere legislativo riscrive la Carta fondamentale della Repubblica". Un'obiezione cui proprio non si può rispondere con la storiella del 41% alle Europee.