Chi si schianterà prima tra la crescita italiana e il debito pubblico? Se oggi il Tesoro festeggia nuovi cali sia dei rendimenti dei titoli a breve scadenza in asta (sui Ctz aprile 2016 emessi stamattina il rendimento pagato è risultato pari allo 0,428% lordo annuo, il nuovo minimo dalla nascita dell’euro, contro lo 0,519% segnato il mese scorso), emessi peraltro solo per 2,25 miliardi di euro e quindi non in grado di incidere direttamente sul costo medio di un debito di oltre 2.166 miliardi a fine maggio, sia dei Btp decennali quotati sul mercato, col rendimento del titolo guida calato al nuovo minimo storico del 2,76% (e uno spread contro Bund che torna a scendere sull’1,53%) non si vedono segnali concreti di un’inversione di quella crisi da domanda che la “cura letale” avviata da Mario Monti su pressione della Ue (e in particolare del suo più influente membro, la Germania) sin dalla fine del 2011 ha aggravato e non attenuato.
Per chi non ne fosse ancora convinto che stiamo sbagliando i tempi e probabilmente i modi della “cura” che dovrebbe mettere in sicurezza i nostri conti pubblici e far ripartire l’economia, condizione quest’ultima senza la quale è ormai evidente che anche l’Italia corre il rischio di fare la fine dell’Argentina (che salvo accordi in extremis rischia di vivere il suo secondo default nell’arco di un decennio ai primi di agosto) ovvero della Grecia (che a distanza di quasi quattro anni dal varo degli “aiuti internazionali” non vede alcun tangibile segnale di ripresa economica mentre la disoccupazione resta sopra il 25% a livello generale mentre oltre la metà dei suoi giovani non riesce a trovare lavoro) cito solo due fatti concreti che contraddicono il segnale di “speranza” giunto dal recupero della fiducia delle imprese segnalato “provvidenzialmente” dall’Istat in giornata.
Anzitutto una ricerca (“La spending review dei consumatori italiani”) curata da Enrico Valdani per il Cermes (Centro di ricerche su marketing e servizi dell’Università Bocconi) conferma che tra il 2011 e il 2013 solo l’8% degli italiani non ha ridotto gli acquisti, dichiarando di avere semplicemente cambiato abitudini d’acquisto e negozi (5%) o di aver risparmiato di meno (3%), mentre il 92% del campione ha ammesso di aver, chi più chi meno, iniziato a tagliare le spese. Cosa che ha avuto un inevitabile impatto nei settori dell’abbigliamento (il 60% degli italiani ha segnalato minori spese), del turismo (viaggi e vacanze sono stati tagliati dal 53% degli intervistati, alla faccia che è colpa del maltempo se gli alberghi e i lidi si riempiono solo e non sempre nei fine settimana), dell’arredamento (ha ridotto le spese il 42% del campione), della bellezza e fitness (42%), degli hobby dello sport e del tempo libero (40%).
Si noti che dovendo tagliare gli italiani, sempre più “appassionati” di smartphone e tablet, hanno evitato di ridurre troppo le spese per internet e telecomunicazioni (solo il 14% ha segnalato una contrazione delle spese), per la salute (comunque ridotta dal 16%), per le assicurazioni (un 17% ha trovato il modo di risparmiare) e per alimentari e bevande (dove il 18% ha comunque tagliato le spese). Beni, non a caso, considerati da sempre anticiclici e dunque tendenzialmente in grado di difendersi meglio di altri dalle crisi economiche. Al contrario anche gli acquisti di computer ed elettronica, fino a oggi in buona salute, sono stati ridimensionati dal 34% degli italiani. Se poi qualcuno pensa che una ricerca “microeconomica” non può spiegare compiutamente un fenomeno di dimensioni “macro”, vale la pena di riflettere su alcuni dati diffusi da Macrobond e subito rilanciati diffusamente (quasi 500 retweet in poche ore) su Twitter.
Come si vede dal grafico in alto, la crescita in termini reali (ossia senza tener conto dell’inflazione, che peraltro continua a rimanere attorno o sotto il mezzo punto percentuale su base annua e non potrebbe essere diversamente vista la gelata dei consumi e la forza dell’euro) dei paesi del G7 tra il primo trimestre 2006 e il primo trimestre 2014 ha premiato il Canada (linea blu), che è saputo superare gli effetti della crisi 2008-2009 persino meglio degli Stati Uniti (linea nera) nonostante questi abbiano potuto godere del poderoso aiuto della Federal Reserve. La Germania (linea azzurra) ha inizialmente pagato la crisi 2008-2009 più duramente della Francia ma ha poi messo il turbo, superando già a fine 2010 Parigi ed accentuando lo “spred” in termini di crescita negli ultimi due trimestri. La Francia (linea fuxia) è comunque riuscita in qualche modo a tenere la testa fuori dall’acqua da inizio 2011, venendo peraltro raggiunta in questi ultimi mesi dal Giappone (linea rosa) dove le misure della “Abenomics” sono se non altro riusciti a far riprendere il Pil dallo stato comatoso in cui aveva iniziato il 2009.
Chi è rimasto indietro? La Gran Bretagna, che nonostante abbia la sterlina (con buona pace dei colleghi che riconducono tutte le colpe della crisi italica all’adozione dell’euro e all’impossibilità di fare una bella “svalutazione competitiva” come quelle che hanno artificiosamente fatto sviluppare l’economia italiana negli anni settanta e ottanta) e le misure di sostegno messo in atto dalla Banca d’Inghilterra solo lo scorso trimestre ha visto il proprio Prodotto interno lordo ricuperare i livelli toccati alla fine del primo semestre 2008, e l’Italia (linea verde). Il Belpaese ha subito i contraccolpi della crisi “inesistente” del 2008-2009 esattamente quanto la Germania e la Gran Bretagna. Aveva persino iniziato a recuperare terreno, sia pure con ritardo rispetto a Francia e Germania (ma sostanzialmente in linea con Gran Bretagna e Giappone) sino alla maledetta estate 2011. Poi da lì tutto è precipitato: i mercati si sono stancati di Silvio Berlusconi e lo hanno “scaricato” facendo esplodere il differenziale di rendimento tra titoli di stato italiani e tedeschi, lo spettro di una fine “alla greca” si è affacciata prepotentemente, i mercati finanziari si sono “rotti” e solo l’intervento della Bce di Mario Draghi ha evitato il peggio, ossia un default banco-sovrano (senza peraltro nulla potere per quanto riguarda il far arrivare il credito alle piccole e medie imprese italiane).
La “cura letale” che da quel momento è stata sostanzialmente imposta all’Italia ha fatto sì che il nostro Prodotto interno lordo sia da allora e sino al terzo trimestre dello scorso anno ininterrottamente calato. Gli ultimi due trimestri hanno mostrato una sostanziale stabilizzazione sul fondo del nostro Pil, basteranno i continui ribassi del costo del debito per fare ripartire l’economia italiana? Nonostante i sussulti della “fiducia” delle imprese la sensazione è che no, non basti, almeno in assenza di riforme e/o di una forte ripresa economica mondiale, che al momento sembra meno solida del necessario. Mai dire mai, naturalmente, ma sarebbe ora che il governo si desse una impegnativa agenda riformista tanto a livello domestico quanto a livello europeo, approfittando del “semestre italiano” in corso. Altrimenti il rischio è di trovarci ancora sul fondo quando la crescita “degli altri” dovesse essere esaurita. Col rischio che a quel punto, davvero, si incominci a scavare.